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50 anni di doc e Vinitaly, la prima volta senza Giacomo Tachis

Il pensiero di uno dei più grandi enologi italiani, che ha introdotto in Italia “l’enologia colta”, tecnicamente impeccabile, intellettualmente determinata, fondata su un’eccezionale sensibilità
Dai “Super Italians”, i vini italiani “fuori dagli schemi” alle intuizioni che hanno cambiato il corso dell’enologia, l’eredità tecnica, ed umana, di Tachis al mondo del vino.

“Dell’enologia colta, tecnicamente impeccabile, intellettualmente determinata, fondata su un’eccezionale sensibilità”. Potrebbe esser questo l’incipit di un “testamento”, con i lasciti al mondo del vino di uno dei più grandi enologi italiani: Giacomo Tachis, più che l’uomo del “Rinascimento” del vino italiano, uno “scienziato”, che, in punta di piedi, con la sua professionalità, e passione per la conoscenza del passato, ha gettato le basi di ciò che si sarebbe compiuto, e compreso, solo più tardi. 

Cinquant’anni sono passati dal riconoscimento delle Denominazioni di Origine ai vini italiani e dalla nascita di Vinitaly, la fiera internazionale di riferimento del settore (Verona, 10-13 aprile; www.vinitaly.com), e sarà la prima volta senza Tachis, ma non senza il suo spirito. Se l’enologia colta è, senza dubbio, la prima innovazione che Giacomo Tachis ha introdotto in Italia, alla base del suo pensiero, che WineNews, uno dei siti più cliccati dagli amanti del buon bere, ripercorre, e che Vinitaly ha raccontato nel calice con alcuni dei suoi più celebri “Super Italians”, i vini italiani “fuori dagli schemi” in “Il Vino Italiano ricorda Giacomo Tachis: un grande uomo, tante grandi storie”, la degustazione a cura di Vinitaly International Academy, con la figlia Ilaria Tachis, produttrice nel Chianti Classico, oggi a Verona, ci sono anche intuizioni che hanno cambiato il corso dell’enologia italiana, e che rappresentano l’eredità tecnica di uno dei suoi “padri fondatori”.

“I 50 anni di Vinitaly non potevano essere celebrati compiutamente senza i vini che hanno fatto la storia del vino italiano creati da Giacomo Tachis - ha detto alla degustazione il direttore generale di Veronafiere Giovanni Mantovani - è un grande onore la presenza della figlia Ilaria, con il suo racconto di aspetti della vita del padre non solo professionali, ma anche più intimi. Come ultimo evento promosso da Vinitaly con la International Academy, alla presenza di numerose personalità straniere - prosegue Mantovani - non poteva che esser questo il modo migliore per presentarci al mondo”.

Giacomo Tachis nel suo percorso professionale e umano ha sviluppato uno spirito rinascimentale perché non ha mai anteposto la tecnica all’anima della terra, piuttosto è rimasto con i piedi ben piazzati a terra, nella consapevolezza della forza della natura, con una visione dell’enologia non finalistica, ma olistica: produrre vino come una parte del Creato. Ha condotto e compiuto la sua opera decenni prima del cosiddetto “Rinascimento” del vino italiano - attribuibile ai successi ottenuti dal vino italiano nella seconda parte degli anni Ottanta sui mercati e in un’immagine innovativa dell’Italia evocatrice di qualità - già in atto, forse in modo sotterraneo, fin dall’inizio della sua avventura con Antinori. 

Il primo Sassicaia firmato Tachis per Incisa della Rocchetta è la vendemmia 1968, il primo Solaia esce nel 1978, e il Tignanello è uscito con l’annata 1971. Dalla Toscana, la sua patria d’adozione, fino a molti dei territori dell’Italia enoica, tanto diversi tra loro, ma con un unico minimo comune denominatore, rappresentato dall’attrazione profonda quasi chimica con questi territori e con il materiale umano con cui interloquiva. In Sardegna, nel 1988 per far nascere il Turriga di Argiolas e prima ancora per dare alla luce il Terre Brune di Santadi. Quindi, la Sicilia dove prepara il campo all’esplosione enoica dell’isola, e il Trentino, dove con Guerrieri Gonzaga crea il San Leonardo, e poi le Marche con la nascita del Pelago di Umani Ronchi.

Alla base vi sono scelte che, a distanza di anni, restano tra i contributi più preziosi al successo dei nostri vini, metodologie ormai “codificate”, capaci di far dialogare la tradizione italiana con quella francese, come Tachis dialogava con il suo mentore Emile Peynaud, padre dell’enologia moderna di Bordeaux. Dall’uso sistematico della fermentazione malolattica, per ottenere vini dai tannini morbidi e dotati di souplesse, all’invecchiamento in barrique, come vaso vinario in cui la micro-ossidazione è perfetta ed è data dall’equilibrio tra quantità di vino e superficie di contatto con il legno, dalla considerazione della catena terpenica per l’estrazione massima delle componenti aromatiche, che raccomandava doversi fare con le criomacerazioni, alla frequenza della luce per attivare la fotosintesi, su cui fondava la supremazia del vino italiano su quello francese, Tachis ha “risintonizzato” l’Italia enoica con i tempi.

Ma, soprattutto, ogni suo vino è stato concepito da una attenta rilettura del territorio nel passato e nel presente e con la consapevolezza che la tradizione non debba essere sinonimo di immobilismo, ma riletta in chiave moderna. Solo così la tradizione stessa diventa il vero strumento dell’innovazione. Enologo certo, ma Tachis è stato senz’altro qualcosa di più. Un umanista, che sapeva citare Archestrato di Gela, poeta della Magna Grecia, come fondatore della gastronomia. Un po’ alchimista e un po’ scienziato era non solo un grande conoscitore della chimica e della biologia, ma anche un curioso viaggiatore attraverso i sentieri della storia e della letteratura.

L’eredità più preziosa che Tachis ha lasciato all’enologia non è quindi uno strumento tecnico, un’innovativa formula chimica, ma un nuovo sguardo, figlio di occhi diversi, arricchito anche di cultura classica, di cui è una summa la sua biblioteca (donata alla Fondazione Chianti Banca e che sarà a breve a disposizione di tutti gli studiosi, e parte del catalogo della Biblioteca di San Casciano Val di Pesa): un patrimonio di oltre 3.500 volumi e documenti, accanto ai suoi manoscritti. Giacomo che si definiva “mescolatore di vini”, ci ha insegnato che lo studio principale dell’enologia dovrebbe fondarsi sull’“interpretazione umana dell’uva”, e, oseremmo dire di quella Terra, che da poco, lo ha pacificamente accolto.

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