Dalla “lambruscaia” villanoviano-etrusca alla piantata, un excursus storico basato su nuovi studi e ricerche, getta una nuova luce sulle antiche origini del lambrusco e della vigna alberata.
di Corrado Re
(geo-archeologo e antropologo)
Le origini della viticoltura e della vinificazione affondano in tempi lontani: la prima testimonianza della produzione di vino risale infatti al VI millennio avanti Cristo. Nell’Iran nord occidentale sono state rinvenute anfore con depositi di acido tartarico (composto presente nel deposito del vino non filtrato) e tracce di resina vegetale di terebinto, utilizzata per stabilizzare la fermentazione.
Nei millenni successivi le tracce di vinificazione si estendono al medio e vicino oriente ed al mediterraneo centro orientale, fino alla Grecia e Macedonia. La vinificazione è legata alla domesticazione della vite: la Vitis vinifera sativa (coltivata), a differenza della Vitis vinifera silvestris (selvatica) è ermafrodita, cioè ha sulla stessa pianta sia gli organi sessuali maschili che femminili. Può così autofecondarsi, determinando una produzione di frutti decisamente più consistente e la stabilità delle caratteristiche nei grappoli prodotti, che sono tutti dotati dello stesso patrimonio genetico, derivando tutti esclusivamente da un’unica pianta.
Poiché l’areale di diffusione della Vitis v. silvestris è piuttosto ampio, spaziando dalle aree costiere mediterranee al Caucaso, è possibile e verosimile che diverse zone siano state testimoni della domesticazione della vite: molti indizi inducono infatti a pensare che la vite sia stata addomesticata anche in Italia in modo indipendente dagli apporti culturali orientali. Se, fino a non molto tempo fa, sembrava scontato che la cultura del vino fosse arrivata in Italia con la colonizzazione greca, gli studi più recenti dimostrano che il vino era noto già prima degli intensi scambi culturali con i mercanti e colonizzatori greci, nell’VIII-VII sec. a.C..
È possibile, in base a indizi archeologici, che la vite coltivata fosse presente in Italia già dal Neolitico ed è accertata la presenza di vite coltivata nell’età del Bronzo con la contemporanea comparsa dei “pennati”, strumenti - simili alle attuali roncole pennate - specifici per la potatura della vite. Il vino è certamente conosciuto nella cultura Villanoviana (cultura della prima età del Ferro, precorritrice della civiltà etrusca) già dal IX sec. a.C., mentre specifici riferimenti letterari al vino ottenuto da vite potata (quindi coltivata) li abbiamo, a Roma, per il periodo del regno di Numa Pompilio, tra VIII e VII secolo a. C..
(geo-archeologo e antropologo)
Nei millenni successivi le tracce di vinificazione si estendono al medio e vicino oriente ed al mediterraneo centro orientale, fino alla Grecia e Macedonia. La vinificazione è legata alla domesticazione della vite: la Vitis vinifera sativa (coltivata), a differenza della Vitis vinifera silvestris (selvatica) è ermafrodita, cioè ha sulla stessa pianta sia gli organi sessuali maschili che femminili. Può così autofecondarsi, determinando una produzione di frutti decisamente più consistente e la stabilità delle caratteristiche nei grappoli prodotti, che sono tutti dotati dello stesso patrimonio genetico, derivando tutti esclusivamente da un’unica pianta.
Poiché l’areale di diffusione della Vitis v. silvestris è piuttosto ampio, spaziando dalle aree costiere mediterranee al Caucaso, è possibile e verosimile che diverse zone siano state testimoni della domesticazione della vite: molti indizi inducono infatti a pensare che la vite sia stata addomesticata anche in Italia in modo indipendente dagli apporti culturali orientali. Se, fino a non molto tempo fa, sembrava scontato che la cultura del vino fosse arrivata in Italia con la colonizzazione greca, gli studi più recenti dimostrano che il vino era noto già prima degli intensi scambi culturali con i mercanti e colonizzatori greci, nell’VIII-VII sec. a.C..
È possibile, in base a indizi archeologici, che la vite coltivata fosse presente in Italia già dal Neolitico ed è accertata la presenza di vite coltivata nell’età del Bronzo con la contemporanea comparsa dei “pennati”, strumenti - simili alle attuali roncole pennate - specifici per la potatura della vite. Il vino è certamente conosciuto nella cultura Villanoviana (cultura della prima età del Ferro, precorritrice della civiltà etrusca) già dal IX sec. a.C., mentre specifici riferimenti letterari al vino ottenuto da vite potata (quindi coltivata) li abbiamo, a Roma, per il periodo del regno di Numa Pompilio, tra VIII e VII secolo a. C..
Nel complesso le indicazioni archeologiche, storiche e linguistiche definiscono un quadro della viticoltura nell’Italia protostorica che può essere così riassunto: la domesticazione locale della vite selvatica porta alla vinificazione in un pe-riodo precedente ai contatti con i Greci; questa precoce cultura del vino si sviluppa nell’Italia centrale, tra Etruria e Lazio. La vite viene coltivata col metodo della potatura lunga su tutore vivo: la “lambruscaia”. Si tratta in pratica del sistema più simile alle condizioni naturali di crescita della vite: come altri rampicanti, la vite prospera con il supporto di un’altra pianta, alla quale si abbarbica per raggiungere migliori condizioni di insolazione.
L’addomesticamento e la coltivazione consistono semplicemente nel selezionare le piante ermafrodite sviluppate spontaneamente e nel potare i tralci, nonché le fronde del tutore, per permettere una migliore produzione dei grappoli. Il vino prodotto con queste uve, direttamente derivate dalla vite selvatica autoctona, viene denominato, con termine italico, temetum.
In seguito i Greci diffonderanno una viticoltura più evoluta, importando vitigni già da lungo tempo addomesticati e selezionati in oriente, e introducendo la vigna contutore morto e potatura corta, detta anche a palo secco. Si sviluppano così due viticolture nel periodo etrusco e romano: quella basata su viti autoctone, maritate ad alberi vivi, di tradizione etrusco-italica, e quella basata su viti importate, di introduzione greca, da cui origina anche un nome diverso per la bevanda fermentata: dal greco oinos
derivano l’etrusco ed il latino vinum.
La diffusione della vitivinicoltura nella pianura padana avviene tramite gli Etruschi: ovviamente viene trasmesso il metodo autoctono, definito in latino come arbustum, con riferimento al tutore vivo, o labrusca (e labruscum l’uva prodotta). Il termine labrusca, secondo l’interpretazione dell’etimologia, indicherebbe cespugli o rovi che si sviluppano ai limiti dei campi: così, infatti, appariva il groviglio della vite intrecciata ai rami dell’albero di supporto. In pianura padana l’arbustum si sviluppa in arbustum gallicum, che si differenzia per una minore altezza di tutore e vite, ottenute tramite la potatura, e l’utilizzo come tutore prevalentemente dell’opulus, l’acero campestre, tuttora denominato opi nei dialetti padani.
È così nata la piantata, o vigna alberata, di tradizione tipicamente italica, così com’è conosciuta fino ai giorni nostri. Il vino ottenuto prende da essa il nome, cosicché il lambrusco, almeno nel nome, tramanda la tradizione della più antica vitivinicoltura autoctona, quella villanoviano-etrusca, ricordando che la pianura padana prima di essere celtica e poi romana, appartenne completamente, anche se a vario titolo, alla sfera culturale etrusca. Ci limitiamo a dire che il Lambrusco tramanda “almeno nel nome” la più antica tradizione, per lo meno fino a quando studi biomolecolari, già in corso da alcuni anni sui vitigni toscani, non getteranno luce sull’effettiva discendenza dell’attuale vitigno emiliano-padano dalle viti selvatiche autoctone, come sembrerebbe dalla sua storia.
L’addomesticamento e la coltivazione consistono semplicemente nel selezionare le piante ermafrodite sviluppate spontaneamente e nel potare i tralci, nonché le fronde del tutore, per permettere una migliore produzione dei grappoli. Il vino prodotto con queste uve, direttamente derivate dalla vite selvatica autoctona, viene denominato, con termine italico, temetum.
In seguito i Greci diffonderanno una viticoltura più evoluta, importando vitigni già da lungo tempo addomesticati e selezionati in oriente, e introducendo la vigna contutore morto e potatura corta, detta anche a palo secco. Si sviluppano così due viticolture nel periodo etrusco e romano: quella basata su viti autoctone, maritate ad alberi vivi, di tradizione etrusco-italica, e quella basata su viti importate, di introduzione greca, da cui origina anche un nome diverso per la bevanda fermentata: dal greco oinos
derivano l’etrusco ed il latino vinum.
La diffusione della vitivinicoltura nella pianura padana avviene tramite gli Etruschi: ovviamente viene trasmesso il metodo autoctono, definito in latino come arbustum, con riferimento al tutore vivo, o labrusca (e labruscum l’uva prodotta). Il termine labrusca, secondo l’interpretazione dell’etimologia, indicherebbe cespugli o rovi che si sviluppano ai limiti dei campi: così, infatti, appariva il groviglio della vite intrecciata ai rami dell’albero di supporto. In pianura padana l’arbustum si sviluppa in arbustum gallicum, che si differenzia per una minore altezza di tutore e vite, ottenute tramite la potatura, e l’utilizzo come tutore prevalentemente dell’opulus, l’acero campestre, tuttora denominato opi nei dialetti padani.
È così nata la piantata, o vigna alberata, di tradizione tipicamente italica, così com’è conosciuta fino ai giorni nostri. Il vino ottenuto prende da essa il nome, cosicché il lambrusco, almeno nel nome, tramanda la tradizione della più antica vitivinicoltura autoctona, quella villanoviano-etrusca, ricordando che la pianura padana prima di essere celtica e poi romana, appartenne completamente, anche se a vario titolo, alla sfera culturale etrusca. Ci limitiamo a dire che il Lambrusco tramanda “almeno nel nome” la più antica tradizione, per lo meno fino a quando studi biomolecolari, già in corso da alcuni anni sui vitigni toscani, non getteranno luce sull’effettiva discendenza dell’attuale vitigno emiliano-padano dalle viti selvatiche autoctone, come sembrerebbe dalla sua storia.
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