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Cavour: la diplomazia di un gourmet

Cavour, il gran bollito sette tagli e una bottiglia di nobile Barolo

Un personaggio centrale e insostituibile nel percorso che ha portato l’Italia alla propria unità di nazione è certamente Camillo Benso Conte di Cavour che, nato a Torino il 10 agosto 1810 morirà nel 1861, il 6 giugno, dopo meno di cento giorni dalla nascita del Regno d’Italia.

Sappiamo dell’amore di Cavour per la buona tavola, passione che lo accompagnava sin da giovanissimo come documenta la lettera che il padre del giovane Camillo scrisse alla moglie: “Nostro figlio è un ben curioso tipo. Anzitutto ha così onorato la mensa: grossa scodella di zuppa, due belle cotolette, un piatto di lesso, un beccaccino, riso, patate, fagiolini, uva e caffè. Non c’è stato modo di fargli mangiar altro!”.

La storia ci riferisce poi che Cavour era convinto delle virtù diplomatiche di un buon pranzo o di una buona bottiglia, raccontano le cronache dell’epoca che quando un suo diplomatico partiva per una capitale straniera, si accertava che nel bagaglio ci fosse qualche bottiglia di Barolo. Cavour infatti fu anche un rivoluzionario del vino, contribuendo con il suo enologo e conte, il francese Louis Oudart, a regalare al Barolo una dignità da gran vino e producendo lui stesso nelle tenute di Grinzane un vino di qualità tale da competere con i prestigiosi Bordeaux e Borgogna. 

Determinante fu il suo contributo a risicoltura e viticoltura e lo realizzò proponendo specifiche leggi e facendole approvare dal Parlamento. Un ultimo esempio è indicativo dell’influenza che Cavour esercitò propria sulla tradizione culinaria, infatti ne “Il gastronomo moderno, Vademecum ad uso degli albergatori, cuochi..” edito nel 1904 sono riportati cinque piatti alla Cavour: un potage, crema di riso al brodo con tuorlo, una tête de veau (testina di vitello con olive, crostini e pomodori), un cappone, un gelato al limone, pudding di riso e ancora gli agnolotti e la finanziera alla Cavour.

Oltre che uno dei piatti preferiti da Cavour il “Gran Bollito Piemontese” detto anche “Bollito sette tagli” piaceva molto a Vittorio Emanuele II, sin da quando era Principe di Savoia in attesa del trono, tanto che spesso scappava dalla Corte di Torino, “noiosa..” dove era costretto a portare “rigide uniformi dai colletti duri” e a mangiare male, cattivi brodetti magri e speziati, alla maniera della corte di Vienna e si recava a Moncalvo, per delle generose libagioni di bollito con gli amici. 

Controversa è la ricetta del gran bollito ma secondo la tradizione ripresa da Giovanni Goria con l’Accademia Italiana della Cucina, il bollito si fa con la regola dei sette tagli, dei sette ammennicoli e delle sette salse. Occorre innanzitutto un vitello di razza piemontese, la carne ben frollata va quindi cotta tutta insieme così certi pezzi sono più morbidi, certi più croccanti, (…è un pregio!), immergendola in acqua già bollente, poco salata, aromatizzata con il mazzo di profumi “rosmarino, aglio, lauro, sedano, cipolla e gambi di prezzemolo”.


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