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Le ricette nei grandi romanzi

Le ricette nei grandi romanzi. “Menù letterari” di Céline Girard
In libreria per i tipi di Franco Cesati Editore.


Le ricette dei libri (e non il contrario). Tra le migliaia di libri di ricette che inondano le nostre librerie è uscito in questi giorni un libro dove le ricette non sono i protagonisti dei libri ma sono gli ingredienti di alcuni romanzi famosi.

Le preferenze culinarie di alcuni celebri scrittori

Qual è la ricetta segreta di Gadda per un perfetto risotto alla milanese? E quella della “celestiale frittata” di d’Annunzio? Cosa mangia il Sal Paradise di Jack Kerouac quando non macina chilometri alla scoperta del grande continente americano?
Questi sono solo alcune perle di “Menù letterari” un libro di Céline Girard, in libreria per i tipi della casa editrice Franco Cesati Editore di Firenze.

Dal blog della Casa editrice Franco Cesati riportiamo Il diario del redattore alias Silvia Columbano che ci descrive come è nato questo bel libro.

Il diario del redattore: “Menù letterari” di Céline Girard

I libri nascono come lʼamore: quasi sempre per caso. Lʼidea di “Menù letterari” nasce così, in un gioco di scambi di preposizioni articolate.
A cena, ovviamente.
Ci sono un editore, un paio di redattori (tra cui la sottoscritta), altrettanti autori, un libraio, un giornalista e “unʼamica di” ad accerchiare un tagliere di salumi e bruschette toscani. Io capito proprio di fronte “allʼamica di”. È una ragazza biondina, dallʼaccento francese, sembra simpatica. Le chiedo da dove venga e così cominciamo a parlare di Parigi; città che amo. Ma chi non ama Parigi? Le racconto dei “miei” luoghi, lei sorride e dʼun lampo le sto chiedendo perché diavolo si sia trasferita a Firenze. Mi rendo conto di essere andata troppo sul personale perché i motivi delle persone spesso sono legati ad altre persone, e alla vita che segue le sue vie e ti porta dove vuole. Eppure lei ride ancora e poi risponde. Quando era al liceo unʼestate i genitori lʼhanno trascinata a Firenze.
“Puoi capire unʼestate con i tuoi genitori quando hai diciassette anni, la scuola è finita evorresti solo uscire con i tuoi amici e vedere se il ragazzo dietro cui muori riuscirà a chiederti di uscire?”.
Paese che vai, teenager che trovi. Ovvio che capisco. Come capisco che Firenze è una città complicata ma a cui non può far altro che voler bene. Basilica di Santa Croce, Dante, Stendhal, la parigina è stesa. E poi le piace troppo quella c strascicata, dolce come la sua erre moscia. Finito il liceo si trasferisce a Firenze e si laurea in letteratura italiana.

Autori preferiti? “Pavese e Calvino. E poi, vabbè, Hemingway, anche se per una donna a volte non è facile leggere i suoi romanzi. Sai che la Woolf detestava il suo modo di scrivere che definiva sessista?”. Sì, lo so. Ma non è straordinario che uno scrittore riesca talmente a farla vera da farti infuriare su una pagina? A me è successo lo stesso, e ancora prima, con il “Rosso e il nero”, e torniamo a Stendhal. “La ricetta dei romanzi di Hemingway è togliere, tagliare, limare, ridurre il testo allʼosso” argomenta. Niente orpelli, niente descrizioni interminabili. Solo la storia. “Ci vuole coraggio, sai, per scrivere così, senza nascondersi dietro troppe parole. Prendi il cibo, questo cibo” − e indica il tagliere, ormai mezzo vuoto. “Se gli ingredienti sono buoni e reggono da soli non cʼè bisogno di fare cose complicate; a Firenze non dite troiai?”. La tavolata ride, per la sua erre interminabile e perché anche quella parolaccia è diventata seta. E forse perché nella sua semplicità ha centrato nel segno. “Dʼaltronde spesso cibo e scrittura si fondono e confondono: prendi Festa mobile”. In quella sorta di diario parigino, Hemingway racconta delle chiacchierate a casa di Gertrude Stein, dei libri da pagare alla libreria Shakespeare & Company, delle giornate passate a scrivere con solo un café crème sullo stomaco, il che significa tornare a casa con una fame selvaggia. “Ti ricordi il menù che gli propone una sera la sua compagna?”. Ho letto quel libro due volte ma questo passaggio mi sfugge. Quando sei concentrato a cogliere lʼinsieme, di una storia, come della tua storia, forse perdi i dettagli, le tanto osannate “piccole cose” che sarebbero sempre le migliori.

Così passiamo dalle ricette dei romanzi alle ricette nei romanzi. A me viene in mente che questo potrebbe essere un bel libro e lo pensa anche Céline; dopotutto scrivere è il suo mestiere, visto che fa la giornalista, è appassionata di letteratura (italiana e non solo) e le piace anche mangiare, a giudicare dalla velocità con cui ha divorato la sua fetta di torta alla fine della cena a otto. Ma come creare un libro che racconti i romanzi attraverso le ricette e i piatti che fanno da contorno e da sfondo alle storie, alle vite quotidiane dei personaggi?

Accostando, come si fa a tavola, sapori e colori. A partire da quelli più stuzzicanti con una breve introduzione che aiuti il lettore a entrare nellʼatmosfera delle opere; che funzioni un poʼ come il sottofondo musicale nelle scene dei film. Niente di accademico ma qualcosa scritto di pancia, che dia sì delle informazioni e racconti degli aneddoti ma con il punto di vista di una lettrice sensibile e attenta, ai dettagli come al clima, alle ambientazioni, al pensiero e ai sentimenti più intimi degli autori.
Desideravo che leggere Menù letterari fosse come quella sera a cena in cui Céline mi aveva parlato di Hemingway, di letteratura, di viaggi, di cucina: frammenti di racconto, vita, libri, cibo, pensieri, luoghi; i cui fili si confondessero, si mescolassero facendo venire voglia di leggere a chi non è un appassionato di libri; a chi cucina, di preparare un menù diverso in cui lʼingrediente principale fossero prima le parole e poi i piatti. E che a tutti venisse una gran fame.

Poi avremmo lasciato parlare i libri, le pagine dense e profonde in cui i personaggi vivono, parlano, incontrano, riflettono ma mangiano, anche: di gusto o per consolazione; per esigenza e male, per festeggiare o per affondare i propri dolori, per farsi compagnia, per riempirsi lo stomaco, per noia, per riscaldarsi, per giocare, un poʼ come facciamo tutti. Infine, le ricette, scritte in modo chiaro, come unʼamica che ti racconta come rifare un dolce con cui ha fatto un figurone la sera prima.
Ma quali e quanti libri scegliere tra i milioni scritti da quando Gutenberg ha inventato i caratteri mobili?

“Scegliamo un multiplo di tre: a Dante ha portato fortuna, speriamo anche a noi!”. Scherziamo un giorno di fronte a un caffè; quando si lavora a un libro, quando lo si pensa, si pensano anche un sacco di sciocchezze. Ma quellʼidea è rimasta. E sia 24: ci pareva un bel numero. Così abbiamo iniziato una sorta di dieta ipocalorica dei libri: io avrei proposto a Céline una selezione ristrettissima dei miei, quelli che anche unʼappassionata e studiosa di letteratura italiana difficilmente poteva conoscere e lei quelli a cui proprio non avrebbe saputo rinunciare.

Due pile di libri sul tavolo, una mia e una sua e giù a confrontare. “Quelli troppo noti via”. “Non mi togliere però le madeleine di Proust”. Dʼaccordo.

Nella mia formazione cʼerano Cassola, Parise, Clara Sereni, Grazia Deledda, Natalia Ginzburg e Marinetti; ho messo le mani avanti dicendo che questʼultimo non aveva scritto un vero e proprio romanzo e nemmeno i Sillabari di Parise lo erano; lei ha risposto con Pavese, Calvino, Hemingway ma anche Manzoni, Foster Wallace, Goldoni e Guareschi; “Vedi, anche io avevo in canna un paio di proposte non esattamente narrative”. Non erano più “le ricette nei romanzi” ma “e non solo”, tra parentesi; la punteggiatura salva sempre.

Gli autori e i titoli non sono venuti da sé, come spesso si dice. Dosare antipasti, ma soprattutto primi, secondi e dolci sarebbe stata una buona soluzione; e a introdurre a queste quattro sezioni ci sarebbero stati il piglio e la voce narrante (con la erre moscia) di Céline.

La selezione era finita. Dopo tante chiacchiere bisognava realizzarlo, questo libro. Anzi questa matrioska di libri. Céline avrebbe pensato ai testi da scrivere e io a tutto il resto, compreso lʼimpianto grafico. Volevo che ognuno dei ventiquattro capitoli dei Menù dicesse a colpo dʼocchio qualcosa che il lettore avrebbe ritrovato nei testi; che le immagini, le fotografie, le grafiche rétro contribuissero a dare vita alla narrazione: così da sembrare per davvero di trovarsi in un bosco con i tagliatori di legna di Cassola e di pranzare con loro a pasta e fagioli; di vivere in unʼatmosfera in bilico tra sogno, realtà, allucinazione, in cui tutto non è ciò che sembra con Palomar di Calvino nel suo museo del formaggio; di ritrovarsi al faro di Godrevy con Virginia Woolf e assaggiare la ricetta segreta del beuf en daube; di partecipare a uno degli scintillanti party primo novecento a casa Gatsby; di sbirciare nella cucina di Clara Sereni mentre prepara la pizza in attesa che escano i risultati del referendum che abrogherà la legge sul divorzio; di esibirsi in acrobazie linguistiche e culinarie con Marinetti per poi scoprire che anche i futuristi adorano i tortellini in brodo. In questo libro, finire un capitolo significa davvero voltare pagina e cambiare storia. Finire un libro e partire con un altro.

E qui inizia la parte meno romantica di tutta questa storia. Iniziano i verbi che sono il pane quotidiano per un redattore, tanto per rimanere in tema di cibo: riscontrare i testi citati dalle edizioni di riferimento, uniformare grafie, cercare font leggibili ma di impatto, correggere refusi e frasi che non tornano, ripensare pagine, cancellare, proporre correzioni, riscrivere e far riscrivere Céline. Limare, limare, limare.

E continueresti a limare allʼinfinito finché lʼautore ha finito le parole, e forse anche tu, e lʼeditore dice stop: si deve uscire. Così sei costretta, siamo costrette, a lasciare che i Menù camminino e prendano la loro strada, che entrino (speriamo) nelle case e nelle cucine dei lettori, che riempiano le loro stanze di parole scritte bene, di pagine di letteratura, ma anche dei profumi e dei sapori delle ricette che fanno parte di quelle storie.

Per quanto mi riguarda so per certo che ogni volta che cucinerò un risotto alla milanese penserò a Gadda; che quando girerò una frittata avrò la tentazione di guardare in cielo per vedere se cʼè un angelo che aspetta, come racconta dʼAnnunzio; quando mangerò un gelato mi verrà in mente lʼinnocenza di un bambino così come lʼha descritta Goffredo Parise.

E qui inizia la parte meno romantica di tutta questa storia. Iniziano i verbi che sono il pane quotidiano per un redattore, tanto per rimanere in tema di cibo: riscontrare i testi citati dalle edizioni di riferimento, uniformare grafie, cercare font leggibili ma di impatto, correggere refusi e frasi che non tornano, ripensare pagine, cancellare, proporre correzioni, riscrivere e far riscrivere Céline. Limare, limare, limare.

E continueresti a limare allʼinfinito finché lʼautore ha finito le parole, e forse anche tu, e lʼeditore dice stop: si deve uscire. Così sei costretta, siamo costrette, a lasciare che i Menù camminino e prendano la loro strada, che entrino (speriamo) nelle case e nelle cucine dei lettori, che riempiano le loro stanze di parole scritte bene, di pagine di letteratura, ma anche dei profumi e dei sapori delle ricette che fanno parte di quelle storie.

Per quanto mi riguarda so per certo che ogni volta che cucinerò un risotto alla milanese penserò a Gadda; che quando girerò una frittata avrò la tentazione di guardare in cielo per vedere se cʼè un angelo che aspetta, come racconta dʼAnnunzio; quando mangerò un gelato mi verrà in mente lʼinnocenza di un bambino così come lʼha descritta Goffredo Parise.

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