Giovanni Pierluigi da Palestrina e l’arte del tempo: l'intelligenza del dettaglio notazionale. La scrittura mensurale come forma del pensiero musicale
Tra i numerosi aspetti ancora poco indagati nell'opera di Palestrina, la scrittura mensurale in alcune sue opere, rivela una sorprendente densità concettuale. Ben oltre la funzione pratica o convenzionale, la notazione del tempo si rivela in esse come un dispositivo di pensiero, in cui segni, mensurae e tactus non solo regolano il flusso musicale, ma lo modellano in profondità. In questo articolo ho tentato di elaborare, seppur brevemente, un’analisi sintetica, ma mirata, sull’evoluzione della notazione mensurale, cercando di mostrare come Palestrina ne faccia uno strumento espressivo e strutturale, capace di articolare con lucidità il discorso musicale. Una riflessione che, nel rigore formale e nella consapevolezza teorica, vuole contribuire a definire la sua figura non solo come artefice di uno stile, ma come autentico Princeps musicae.
Mi sono ritrovato a parlare di notazione mensurale con il prof. Francesco Luisi alla conferenza “Perché Palestrina è considerato Princeps musicae”, di cui vi ho ampiamente parlato in un mio precedente articolo. Il discorso è emerso mentre si rifletteva sul ruolo del compositore nella riforma musicale post-tridentina, sulla sua eredità culturale e sul contesto istituzionale che ne plasmò il mito.
Luisi ha messo in luce un aspetto spesso trascurato dell’opera palestriniana: le pratiche di notazione mensurale. Ne ha spiegato i principi, illustrando il significato e la funzione dei diversi segni di misurazione e il loro rapporto con il concetto di ritmo, in particolare l’articolata interazione tra mensura (l’organizzazione metrica) e tactus (la pulsazione percepita).
Come suggerito da Francesco Saggio in Palestrina mensuralista: ritmo e notazione nei primi quattro libri di messe, ben oltre il valore funzionale, la notazione mensurale palestriniana sembra assumere di fatto un carattere dichiaratamente concettuale. In alcune pagine, fitte di segni e articolazioni metriche, è possibile cogliere l’intenzione di un autore che vuole dimostrare - forse anche ostentare - la padronanza di un sapere tecnico e teorico. Come ha spiegato Luisi, questo uso sofisticato della notazione non appare mai fine a sé stesso, ma rivela un pensiero musicale profondo, un controllo lucido delle strutture temporali, che diventa cifra stilistica e intellettuale.
Su questa strada, il Palestrina compositore si rivela anche uomo di lettere e di teoria, capace di dialogare - attraverso la scrittura stessa - con i saperi del suo tempo: il diritto, la filosofia, la teologia, ma soprattutto con la tradizione musicale che lo precede. È anche in questa luce, non solo per l’aderenza ai dettami controriformistici, o per la bellezza delle sue melodie, che gli si addice il titolo di Princeps musicae: non semplicemente primo tra i compositori, ma principe del pensiero musicale, capace di articolare con il gesto della penna un universo ordinato e intelligibile.
Saggio scrive che i primi quattro libri di messe, pubblicati nell'arco di ventotto anni, sono i "depositari della sperimentazione semiografica" di Palestrina. Il Missarum liber primus (1554), in particolare, è definito un vero e proprio "teatro delle abilità mensurali". L'intento del compositore era chiaro: dimostrare la sua maestria a tutto campo: al suo interno convivono diversi sistemi di misurazione del tempo, con proporzioni complesse, sovrapposizioni ritmiche e variazioni interne che richiamano la tradizione fiamminga. Questa esibizione di competenza potrebbe essere stata motivata dalla necessità di giustificare la sua improvvisa nomina a maestro della prestigiosa Cappella Giulia.
In questo senso, le dense pagine notazionali dei primi libri di messe possono essere lette come una sorta di dichiarazione di autorità teorica, con cui Palestrina, all’inizio della sua carriera romana, intendeva mostrare piena padronanza delle convenzioni mensurali e delle loro potenzialità espressive. È significativo che tutte e quattro le raccolte siano dedicate a Giulio III, pontefice umanista che, nel 1551, lo aveva nominato maestro della Cappella Giulia in San Pietro. In un contesto ancora fortemente segnato dalla competizione tra maestri e dalla centralità delle istituzioni musicali pontificie, questa ostentazione di rigore e competenza poteva rafforzare il profilo di Palestrina come compositore colto e pienamente allineato ai valori della Chiesa riformata, aprendo la strada alla sua successiva ascesa artistica e istituzionale.
La massima prova di questa perizia mensurale è senza dubbio la Missa L’homme armé a cinque voci, pubblicata nel Missarum liber tertius (1570). Anche Luisi l'ha menzionata in quanto rappresenta una vera e propria "summa delle possibilità ritmico-notazionali" a disposizione di Palestrina, impiegando ben nove segni mensurali diversi. La sua costruzione si basa interamente su una rete di proporzioni temporali complesse, in cui ogni voce segue un proprio percorso ritmico, senza un metro comune iniziale. Il risultato è un tessuto polifonico dalla geometria rigorosa, capace però di un’espressività sorprendente.
Con il secondo e soprattutto con il quarto libro, si nota un progressivo processo di semplificazione. Palestrina abbandona queste prime esuberanze orientantandosi verso una maggiore standardizzazione. I segni complessi lasciano spazio a un sistema più lineare e leggibile, coerente con l’evoluzione della prassi esecutiva e con le esigenze delle cappelle musicali del tempo. Ma questo "alleggerimento" non va letto come rinuncia: è il segno di un equilibrio raggiunto, di una maturità formale in cui l’eleganza nasce dalla chiarezza. La riflessione di Saggio è chiara: il quarto libro può essere considerato un "paradigma della semiografia palestriniana in generale" e, per certi versi, di tutto il Cinquecento, facendo notare che anche gli altri generi spirituali di Palestrina (mottetti, inni, lamentazioni, litanie, Magnificat, offertori) adottano una notazione simile a quella delle messe.
Un nodo centrale di questa evoluzione riguarda il rapporto tra tempo notato e tempo percepito, tra struttura e flusso. Palestrina distingue con rigore tra la “misura” interna delle figure musicali - che regola i rapporti matematici tra i valori - e il battito reale, quello che guida l’esecuzione. Ogni scelta notazionale porta con sé un’intenzione: solennità, agilità, tensione, distensione.
Così, quando rallenta il tempo grafico di una sezione, lo fa per conferire solennità a un passaggio liturgicamente importante. Quando introduce un’accelerazione ritmica attraverso proporzioni interne, crea slancio e varietà, magari in corrispondenza di testi dinamici come l’Osanna o il Gloria. Nulla è lasciato al caso: la mensura diventa un linguaggio parallelo, che struttura il pensiero musicale al di sotto del suono.
La scrittura mensurale di Palestrina non è solo una testimonianza del suo tempo, ma anche il segno tangibile di una mente che pensa attraverso il segno, e questo è importante sottolinearlo. Laddove la notazione assume funzione strutturale, retorica ed espressiva, essa diventa strumento di costruzione formale e insieme di riflessione sul tempo musicale. La ricchezza dei segni, la varietà delle mensurae, la consapevole gestione del tactus, rivelano un autore che non si limita a comporre secondo prassi, ma che interroga la prassi stessa per superarla.
In questo senso, la pagina musicale di Palestrina è anche una pagina teorica: un luogo in cui la grammatica del suono si apre alla possibilità di dire il sacro e l’ordine, in una forma che è al tempo stesso rigore e invenzione. È forse proprio questa intelligenza del dettaglio notazionale, questo uso maturo e dialettico delle convenzioni, a contribuire a definirlo - non solo nel mito, ma nella sostanza del suo operare - come Princeps musicae.
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