Hammershøi e i pittori del silenzio, tra il Nord Europa e l'Italia. A Rovigo l’arte rarefatta dell’invisibile
Curata da Paolo Bolpagni e promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo con il sostegno di Intesa Sanpaolo, l’esposizione convoca oltre cento opere – pitture, disegni, vedute urbane e interni – in dialogo con artisti coevi oltre i confini nazionali. La mostra è il primo grande omaggio italiano a Hammershøi, in luogo di offrire un’immersione rara nella sospensione emotiva che l’artista riusciva a generare: un viaggio intimo capace di rivelare quanta forza espressiva si possa celare nell’apparente tranquillità.
E' una tavolozza smorzata quella dell'intenso pittore danese: grigi, verdi desaturati, tonalità sobrie; Hammershøi traduce in forma pittorica l’introspezione e la rarefazione emotiva attraverso un'interruzione nel flusso del tempo. Le stanze domestiche appaiono immobili, la luce nordica si posa su pareti e legni consumati, le figure – spesso la moglie Ida Ilsted – raffigurate come in un eterno momento di attesa: la visione è quieta, ma il complice dramma sotteso è palpabile. Un’ombra minima, invisibile quasi, come se una presenza silenziosa sfiorasse la compostezza di un Vermeer.
La mostra intende inoltre esplorare affinità e dissidenze tra il pittore e i suoi colleghi scandinavi, francesi, belgi, olandesi e italiani, riconoscendo una vera e propria “poetica del silenzio” condivisa, ma declinata con tonalità diverse. A fianco di Hammershøi possiamo leggere allora le atmosfere intime di Vuillard, Bonnard, Caillebotte, o la solitudine urbana di Khnopff; ma la densità emotiva e la tensione sottotraccia hammershøiana rimangono un unicum.
Le affinità formali e tematiche non celano le profonde differenze che separano l’artista danese dai suoi contemporanei. Vuillard e Bonnard, pur esplorando la vita domestica con sensibilità introspettiva, tendono a immergerla in una dimensione sensoriale, cromaticamente vibrante, dove la materia pittorica stessa diventa esperienza percettiva. Caillebotte, con il suo sguardo affilato sull’anonimato moderno, anticipa una malinconia metropolitana che resta esterna, mentre Khnopff trasfigura la solitudine in simbolismo onirico, come in un rito di astrazione mentale.
Hammershøi, invece, non cerca di raccontare o interpretare: egli sospende. Le sue figure, spesso di spalle, non comunicano né evocano narrazioni esplicite; stanno nel tempo come in una parentesi interiore. I suoi interni, per quanto realistici, sono ridotti all’osso, privati di ogni dettaglio superfluo, e immersi in una luce perlacea che sembra provenire da un altrove mentale. In questa economia dell’immagine si rivela una tensione silenziosa, mai spettacolare, che non si trova negli altri artisti della mostra. È la differenza tra chi rappresenta il quotidiano e chi lo trasfigura fino a renderlo enigma.
Questa vicinanza tra opere, che la mostra costruisce con accortezza filologica, non crea sovrapposizioni, ma invita a leggere la specificità irriducibile di Hammershøi. L’artista danese non racconta storie, non mette in scena simboli: costruisce spazi, luoghi di sospensione psichica, soglie di percezione forse, in una economia visiva che crea una tensione silenziosa, mai spettacolare.
Le sue opere riflettono il suo carattere: uomo solitario e schivo, Hammershøi manteneva un legame profondo con la madre e la moglie, Ida, colpita da turbe psichiche, mentre la sua pittura – evocata poi anche da Carl Theodor Dreyer – respirava un’atmosfera quasi “nevrastenica”.
L’esposizione riporta alla luce questa dimensione introspettiva, rivelando la complessità di un artista che ha saputo rendere il silenzio non come assenza, ma come una densa presenza.
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