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Omaggio a Carlo Levi. L’amicizia con Piero Martina e i sentieri del collezionismo. In mostra un sodalizio pittorico tra storia e intimità

Nel cinquantesimo anniversario della morte di Carlo Levi, la Galleria d’Arte Moderna di Roma, fino al 14 settembre 2025, dedica una mostra all’amicizia inedita tra il celebre pittore e scrittore antifascista e l’artista torinese Piero Martina. Attraverso oltre sessanta opere, molte delle quali mai esposte prima, Omaggio a Carlo Levi. L’amicizia con Piero Martina e i sentieri del collezionismo ricostruisce un dialogo umano e artistico durato più di trent’anni. Il percorso espositivo si concentra sul decennio del dopoguerra, includendo anche una sezione speciale dedicata alla collezione privata di Angelina De Lipsis Spallone, rara testimonianza di un collezionismo affettivo e militante.


A cinquant’anni dalla scomparsa di Carlo Levi, la Galleria d’Arte Moderna di Roma rende omaggio al pittore, scrittore e intellettuale antifascista con una mostra che si distingue non soltanto per l’ampiezza e la qualità delle opere esposte, ma per la sua capacità di riportare alla luce un legame umano e artistico finora trascurato: l’amicizia con Piero Martina. Omaggio a Carlo Levi. L’amicizia con Piero Martina e i sentieri del collezionismo non è solo un'esposizione: è una narrazione per immagini di un'amicizia lunga più di trent'anni, salda e silenziosa, intrecciata alla storia del secondo Novecento italiano.

Curata con rigore scientifico e sensibilità affettiva, la mostra mette in dialogo oltre sessanta opere, molte delle quali inedite, provenienti dalla Fondazione Carlo Levi di Roma, dall’Archivio Piero Martina di Torino e da collezioni pubbliche e private. È un corpus che restituisce in tutta la sua densità l’intreccio biografico, artistico e ideologico tra due personalità che seppero mantenere, pur nella diversità dei linguaggi, un comune orizzonte etico e formale.

Il percorso espositivo si apre con i lavori giovanili degli anni Venti e Trenta, anni in cui entrambi si formarono a Torino, in un ambiente culturale segnato dalla presenza del gruppo di Giustizia e Libertà e dalle tensioni dell’antifascismo militante. Levi, formatosi in ambito medico ma destinato a seguire la chiamata dell’arte e dell’impegno politico, è qui già riconoscibile nel tratto asciutto, nella materia viva, in quell’occhio narrante che attraversa la figura umana senza mai oggettivarla. Martina, meno noto al grande pubblico ma ammirato nell’ambiente torinese e romano, rivela una pittura più intima, talvolta meditativa, dove la ricerca formale si nutre di una coerenza che resiste alle mode. 

La sezione centrale della mostra è dominata dalle opere realizzate nel secondo dopoguerra, quando entrambi, stabilitisi a Roma, condividevano non solo amicizie comuni (da Adriano Olivetti a Renato Guttuso, da Elsa Morante a Linuccia Saba), ma anche una comune vocazione alla testimonianza. È in questo decennio che la pittura di Levi si fa più compatta, densa di memoria civile, popolata di contadini lucani, medici, volti amati e lacerati, mentre Martina costruisce uno spazio pittorico altrettanto coinvolto, ma più sospeso, con nature morte che paiono riflessioni esistenziali e paesaggi che evitano ogni retorica naturalistica.

In questa sintonia di sguardi - tanto più affascinante quanto meno programmatica - risiede la forza di una mostra che ha il merito di restituire la complessità di un’amicizia non ornamentale, bensì sostanziale: un dialogo mai interrotto, in cui la pittura si fa spazio di confronto e di silenzio condiviso. Di particolare rilievo è la sezione dedicata ai diciannove dipinti provenienti dalla Collezione Angelina De Lipsis Spallone, per la prima volta esposti al pubblico. 

È una rivelazione nell’ambito della storia del collezionismo privato in Italia: medico, intellettuale e grande appassionata dell’opera di Levi, Angelina De Lipsis coltivò negli anni un’amicizia profonda con Linuccia Saba, la figlia del poeta Umberto e compagna di Levi negli anni romani. La raccolta, conservata con cura fino alla sua morte nel 2020, è una testimonianza preziosa di un collezionismo affettivo e consapevole, che non risponde a criteri di mercato, ma a una profonda adesione spirituale all’artista e alla sua visione del mondo. In questi quadri – intensi, stratificati, mai compiaciuti – si riconosce la cifra più autentica di Levi, quella in cui il suo essere pittore si fonde con la sua vocazione a “vedere” l’uomo nella sua irriducibile dignità.

La mostra si inserisce così nel solco degli studi recenti che hanno restituito alla figura di Carlo Levi una dimensione plurale, capace di attraversare la storia politica, letteraria e artistica del Novecento italiano. Si pensi, tra gli altri, agli studi di Gigliola De Donato e Luisa Mangoni (cfr. Carlo Levi. Scrittura e pittura, Donzelli, 2002), alla sistemazione dell’archivio presso la Fondazione Carlo Levi o alla riscoperta di Martina da parte di studiosi torinesi come Riccardo Passoni. Ma ciò che più colpisce in questa occasione è la capacità di mettere in scena una geografia sentimentale dell’arte, in cui le opere non sono isolate monadi estetiche, ma espressioni vitali di relazioni, memorie condivise, scelte morali. In un’epoca di narcisismo digitale e collezionismo speculativo, questa mostra ci ricorda con forza che l’arte può ancora essere luogo di affinità, di custodia e di racconto.

Nel segno dell’amicizia, la mostra restituisce un capitolo rimasto nell’ombra della pittura italiana del Novecento, riportando alla luce un dialogo profondo tra due artisti uniti da affinità elettive e scelte condivise. Non siamo di fronte soltanto a due pittori, ma a due esistenze che si sono intrecciate nel tempo, due sguardi capaci di attraversare il dolore, la bellezza, la responsabilità. Due vie distinte, eppure intimamente convergenti, per restare fedeli a un’idea alta, civile e necessaria dell’arte e dell’umano.

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