Luca Cervoni (stimato tenore con solidissima reputazione di barocchista), Alessandro Quarta (poliedrico direttore d’orchestra e concertatore) e una dozzina di nutrici secentesche unite allo spirito salace del cabaret italiano di Petrolini o Poli, sono gli ingredienti del più stravagante, divertente, originale, sofisticato -eppur immediato- esperimento metatemporale tra opera barocca e cafè chantant che sia mai stato tentato negli ultimi decenni in Italia.
Nell’immaginario comune è difficile trovare qualcosa di più distante dal nostro quotidiano di quello che è il mondo dell’opera barocca, con i suoi cantanti en travesti, i suoi miti e le sue sonorità così diverse da quelle che ci circondano. Ma lo stuolo di Nutrici recuperate da pagine rare e talvolta rarissime dell’opera italiana del ‘600 da Luca Cervoni e da Alessandro Quarta, riesce benissimo nell’intento abbattendo ogni muro culturale, divertendo ed intrigando senza per questo discostarsi di un millimetro dalla più rigorosa filologia musicale.
Luca Cervoni, Alessandro Quarta e l’Ensemble Concerto Romano ci introducono su un palco affollato di signore di mezza età dai nomi stravaganti, come in un elenco telefonico della Bassa Padana degli anni ’60; qui costumi e travestimenti non prevedono pepli, coturni o crinoline, ma modesti abitini vintage rubati a un Paolo Poli o a una Franca Valeri in vena di understatment. In un attimo i loro sentimenti di tagliente verità, a volte sconci, a volte teneri, materni o irriverenti e cinici, diventano il nostro amarcord di nonne, zie, maestrine, figure di un passato ben più recente; archetipi di uno status della femminilità che ancora esiste e forse esisterà per sempre, materia pulsante di cabaret: teatro popolare ma di altissimo lignaggio.
Ed è in questo continuo dialogo tra alto e basso, tra correttezza filologica e “tradimento” assoluto, in questa fusione di piani temporali, che sta il fascino irresistibile di questo gala di comprimarie finalmente giunte alla ribalta: Desba, Dirce, Nerea, Nisbe, Pasquella, Plancina, Rodisbe, Delfa, Filandra, Lenia, Gilda -e naturalmente l’eponima Arnalta, con la sua umanità dolente, inacidita o affettuosa- travalicano i secoli e soprattutto i cliché e i preconcetti di chi pensa che mai e poi mai potrebbe godere di un’aria di Cavalli o Monteverdi, o dei meno conosciuti Melani, Steffani e Sartorio, fra i tanti.
E se è vero che la rilettura registica nell’opera ci ha abituato alle attualizzazioni, la totale e perfetta fusione di due generi ben codificati come opera barocca e cabaret è invece una novità assoluta, spiazzante proprio perché perfettamente riuscita. Ed è ancora più spiazzante giacché nata dalla creatività di due artisti con un impeccabile curriculum e una carriera ben consolidata, con due futuri professionali perfettamente prevedibili su solchi già tracciati; ma l’umanità eternamente quotidiana di queste donne, che cantano di Dei come della nostra vicina di casa, li ha travolti nella loro normale follia.
“Il teatro del Seicento è uno specchio, e sono sicuro che ognuno di noi si riconoscerà almeno in una di queste nutrici” .
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