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Export, corre agroalimentare italiano per ottima reputazione e posizionamento di qualità

Export agroalimentare italiano: in Nord America +120% in quindici anni. E le potenzialità per crescere ancora sono tante.

Dopo la Germania, il Nord America (Usa + Canada) rappresenta la seconda destinazione del nostro export agroalimentare, con un valore che nel 2016 ha superato i 4,6 Miliardi di euro, il 12% del totale. Anche nei primi sette mesi di quest’anno le vendite italiane di food&beverage negli USA sono aumentate di oltre il 7%, ma da un’índagine realizzata da Agrifood Monitor di Nomisma e CRIF sui consumatori statunitensi e canadesi emergono ulteriori margini di crescita, in virtù di un’ottima reputazione e di un posizionamento di qualità di cui godono le nostre produzioni e che, anche grazie al recente accordo di libero scambio con il Canada (CETA), potrebbero ottenere un ulteriore spinta propulsiva. 

Con un valore superiore ai 130 Miliardi di euro, gli Stati Uniti rappresentano il primo mercato al mondo per import di prodotti agroalimentari. Al secondo posto figura l’Unione Europea (considerata ancora a 28 membri) con 112 Miliardi, mentre tra i restanti paesi più rilevanti risultano Cina (92 Miliardi di euro di import), Giappone (59 Miliardi) e Canada (32 Miliardi di euro).

Redditi medi pro-capite compresi tra i 42.000 e i 57.000 dollari annui – contro i 31.000 di quelli italiani – previsti ulteriormente in crescita di oltre il 14% nei prossimi cinque anni, fanno del Nord America uno dei mercati più importanti per le esportazioni agroalimentari, dove oggi la nostra quota misurata sull’import del paese è ancora marginale (3,4% negli Usa, 2,6% in Canada).

Eppure le potenzialità di crescita sono tante, alla luce del posizionamento e della reputazione di cui godono i nostri prodotti presso i consumatori di questi due paesi. E’ quanto emerge da uno studio di Nomisma e CRIF presentato oggi in occasione del Forum Agrifood Monitor, tenuto a Palazzo di Varignana e al quale hanno partecipato, tra gli altri, Gianpiero Calzolari (Granarolo), Paolo De Castro (Parlamento Europeo), Jan Scazighino (Ambasciata del Canada), Michele Scannavini (ICE Agenzia), Luigi Scordamaglia (Federalimentare), Paolo Tramelli (Consorzio Prosciutto di Parma).

I prodotti tipici del “Made in Italy” alimentare rappresentano la principale componente dell’export verso questi due paesi: vino, olio d’oliva, formaggi e pasta pesano per circa il 65% sulle esportazioni agroalimentari complessive e contribuiscono in primis ad una bilancia commerciale positiva che, considerata congiuntamente (Usa+ Canada) presenta un saldo di 3,2 Miliardi di euro.

“Il consumo di food&beverage italiano è ancora fortemente concentrato negli Stati costieri degli USA, che presentano i maggiori consumi pro-capite, mentre il Made in Italy risulta poco diffuso nel Mid-West e nelle altre zone centrali del Paese” dichiara Andrea Goldstein chief economist di Nomisma, sottolineando così i potenziali margini di sviluppo ancora esistenti per le nostre esportazioni.

E proprio per capire le differenze esistenti tra le diverse aree degli USA nella conoscenza e reputazione dei prodotti italiani al fine di comprenderne le opportunità di crescita è stata realizzata da Nomisma una survey su un campione di 2.500 consumatori americani suddivisi tra gli stati di New York, California e l’area del “Mid-West” (Illinois, Michigan e Ohio). Tale indagine è stata poi affiancata da un’altra sui consumatori canadesi, sempre nell’ottica di identificare le peculiarità esistenti nella mappa delle preferenze dei consumi alimentari e, di conseguenza, le potenzialità di espansione per i prodotti italiani.

Sebbene il prezzo rappresenti il primo criterio nell’acquisto di un prodotto alimentare per oltre il 20% di statunitensi e canadesi (con punte che arrivano oltre il 40% nel caso dei consumatori del Mid-West), il “Made in Italy” si posiziona al primo posto in termini di reputazione qualitativa presso tutti i consumatori USA, ma al secondo posto nel caso dei canadesi dove svettano invece quelli americani (che rappresentano anche i primi esportatori nel paese).

Elevato il tasso di penetrazione dei prodotti italiani, pari a circa l’80% per entrambe le popolazioni dei due mercati. In tale ambito, oltre il 10% dei consumatori possono essere definiti “authentic user”, vale a dire persone in grado di indicare brand di aziende italiane, che consumano prodotti del “Made in Italy” anche tra le mura domestiche e che si dicono disposte a spendere di più per un prodotto del Belpaese.

“La survey ci ha permesso di definire l’identikit dell’authentic user di prodotti alimentari italiani” dichiara Denis Pantini, Responsabile dell’Area Agroalimentare di Nomisma. “Nel caso degli Usa, si tratta di un consumatore con reddito familiare alto, che vive a New York, di età compresa tra 36 e 51 anni, con alto livello di istruzione e che segue corsi e programmi TV di cucina”. Per quanto riguarda invece l’authentic user del Canada, continua Pantini “si connota sempre per un reddito familiare alto, con età media più elevata rispetto al collega americano (tra 52 e 65 anni), che utilizza internet per informarsi sui prodotti alimentari e che anche in questo caso segue programmi Tv dedicati alla cucina”.

Insomma, le opportunità per i produttori alimentari italiani ci sono e vanno colte tenendo ben presenti queste differenze e peculiarità, soprattutto quando si tratta di implementare le giuste strategie di internazionalizzazione. Da questo punto di vista, il mercato Nord americano offre ulteriori vantaggi. Come sottolineato da Niccolò Zuffetti, Marketing Manager di CRIBIS "la rischiosità commerciale del settore F&B negli Stati Uniti è mediamente inferiore a quella dei nostri maggiori partner europei e sempre più bassa di quella italiana, soprattutto nel commercio all'ingrosso (rischiosità sotto la media nel 55% delle imprese Usa) e nel dettaglio (sotto la media nel 74% dei casi). Questa bassa rischiosità commerciale unita alla presenza di un altissimo numero di player rappresentano una chance importante per le nostre imprese del F&B pronte ad esportare, pur in un contesto caratterizzato da una maggiore concentrazione d'impresa rispetto alla prevalenza di micro-operatori in Italia”.

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