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Vino&Ricerca. Archeologia: attraverso una ricerca analitica combinata, scoperto il più antico vino italiano: ha seimila anni

Si trovava all'interno di grossi vasi rinvenuti in Sicilia e risalenti all'Età del Rame. La datazione associata alla produzione di vino confermata dalle analisi grazie alla presenza di tracce di acido tartarico. Lo studio pubblicato su Microchemical Journal.

Image credit: Dr. Davide Tanasi, University of South Florida
Fino ad oggi, la nascita della viticoltura e della produzione di vino si posizionava intorno all’Età del Bronzo (1300-1100 anni prima di Cristo). Questo ritrovamento potrebbe ora far cambiare le nostre conoscenze sull’economia delle società antiche. Le analisi chimiche sugli antichi contenitori di terracotta fanno infatti risalire la produzione di vino in Italia ben duemila anni prima, ovvero all’Età del Rame (4mila anni prima di Cristo).

L'identificazione dei residui organici conservati in materiali archeologici fornisce buone conoscenze per comprendere la storia della nostra produzione alimentare, il suo commercio e consumo. Il vino è una delle bevande più importanti nell'area mediterranea e di conseguenza, è importante identificare la sua presenza in materiali antichi.

Una conferma sulla datazione, grazie all'aiuto della scienza. Identificare tracce di vino nei materiali archeologici non è stato mai facile, tuttavia, anche se l'identificazione dei marcatori del vino è ancora oggetto di discussione, alcuni autori hanno stabilito che determinati markers permettono, applicando analisi chimiche specifiche, di ipotizzarne la presenza. Tra i primi ad eseguire indagini in tal senso fu Patrick McGovern, direttore scientifico del laboratorio di archeologia biomolecolare della cucina, delle bevande fermentate e della salute al Museo dell’Università della Pennsylvania di Philadelphia ed esperto sulle origini del vino antico, segnalando come markers della presenza del vino l'acido tartarico e i suoi sali: composti che si trovano naturalmente negli acini d'uva e nel processo di vinificazione.

Lo studio è stato realizzato a cura di un gruppo internazionale di ricerca coordinato dall'archeologo Davide Tanasi dell'Università della Florida Meridionale, a cui hanno preso parte anche il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l'Università di Catania e gli esperti della Soprintendenza ai Beni Culturali di Agrigento. I residui organici che aderiscono alla superficie o assorbiti nel tessuto poroso di un recipiente non smaltato, spiegano i ricercatori nella presentazione della ricerca, possono fornire importanti informazioni sia sull’utilizzo dei vasi, sia sulle pratiche alimentari della popolazione che ne ha fatto uso.

Dopo essere stati prelevati da due distinti siti archeologici, uno sul monte Kronio vicino a Sciacca, in provincia di Agrigento, e l'altro allo scavo San'Ippolito di Caltagirone in provincia di Catania, i reperti sono stati successivamente portati in laboratorio. Il passo fondamentale che ha portato a buon fine la ricerca, è stato l'utilizzo di una nuova e più efficace metodologia combinata attraverso innovatiche tecniche spettroscopiche. Esse si basano sull’interazione tra la materia e le radiazioni elettromagnetiche utili per essere sfruttate sia a scopo qualitativo, per identificare elementi o composti chimici, sia a scopo quantitativo, per determinarne la concentrazione nei campioni analizzati (1H-1H NMR 2D-TOCSY, ATR FT-IR e SEM-EDX).

In dettaglio la ricerca analitica combinata ha utilizzato: la Spettroscopia di Risonanza Magnetica Nucleare (NMR), e nello specifico quella bidimensionale o 2D NMR, una tecnica analitica strumentale che permette di ottenere dettagliate informazioni sulla struttura molecolare dei composti in esame e che negli ultimi decenni si è sempre più diffusa in stato solido, ovvero per analizzare moltissimi materiali sia cristallini che amorfi in diversi ambiti di ricerca, come in questo caso per la chimica degli alimenti; la Riflettanza Totale Attenuata (ATR) una tecnica che negli ultimi anni ha rivoluzionato le analisi dei campioni solidi, fornendo dati di qualità eccellente rispetto a quelli forniti dalla tecnica classica; l'EDX (Energy Dispersive X-ray Spectroscopy) una metodica analitica strumentale che sfrutta l'emissione caratteristica di raggi X generati da un fascio elettronico accelerato di elettroni incidente sul campione. La metodica di analisi EDX, tecnica che consente di analizzare e riconoscere gli elementi chimici che costituiscono il campione è stata associata all'utilizzo del SEM (Microscopio elettronico a scansione), che non sfrutta la luce come sorgente di radiazioni, ma un fascio di elettroni primari focalizzati che colpiscono il campione. Abbinando queste due tecniche si è potuto correlare la caratterizzazione morfologica con quella composizionale dei campioni.

Insomma stiamo assistendo ad una vera e propria accelerazione in tema di scoperte archeologiche che portano indietro nel tempo la nostra conoscenza della storia della viticoltura e questo proprio grazie all'aiuto di nuove tecniche scientifiche, che combinano archeologia, chimica e analisi molecolare. Lunga è comunque la strada per risalire ad un idea di vinificazione dei nostri antenati. Il già citato Patrick McGovern in uno studio sulle origini della coltivazione, ha dimostrato, mediante una combinazione di dati archeologici ed analisi chimiche, che la storia del vino affonda le sue radici nel periodo Neolitico (8.500-4.000 a.C.) in corrispondenza alla prima scintilla di civiltà. Egli ebbe a dire: "L´intero processo è una sorta di magia e si può anche dire che la fermentazione sia stata la prima forma conosciuta di biotecnologia".

Link allo studio pubblicato: 1H-1H NMR 2D-TOCSY, ATR FT-IR and SEM-EDX for the identification of organic residues on Sicilian prehistoric pottery

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