Dal prolisso "quant'altro" al deprecabile "piuttosto che" passando dall'inutile "assolutamente sì/no", senza dimenticare il vecchio e odioso "un attimino". Ecco alcune parole troppo spesso usate e abusate che inquinano il nostro lessico quotidiano.
Come un virus, le parole utilizzate male si diffondono contagiando ed alterando la funzione fondamentale del nostro linguaggio. Parole utilizzate impropriamente che generano solo ambiguità e che restano ahimè ancora solidamente ancorate, deviando semanticamente non solo il lessico comune ma anche quello di studiosi, narratori, giornalisti e uomini politici.
Un post stamattina sulla pagina facebook dell'Accademia della Crusca, ha riacceso l'annosa questione mai veramente risolta, sull'utilizzo improprio delle parole. Nello specifico si parlava del "piuttosto che", odioso intercalare che a partire dagli anni '90 partendo dal settentrione è sceso dilagando come fenomeno sociolinguistico in tutto lo stivale. Come scrive l'Accademia, non c'è giorno che dall'audio della televisione non ci arrivino attestazioni del PIUTTOSTO CHE alla moda, spesso ammannito in serie a raffica: «... piuttosto che ... piuttosto che ... piuttosto che ...» [...]. Eppure non c'è bisogno di essere dei linguisti per rendersi conto dell'inammissibilità nell'uso dell'italiano d'un PIUTTOSTO CHE in sostituzione della disgiuntiva O. [...] un PIUTTOSTO CHE abusivamente equiparato a O può creare ambiguità sostanziali nella comunicazione, può insomma compromettere la funzione fondamentale del linguaggio. Tra gli esempi proposti «Andremo a Vienna in treno O in aereo»; in cui le due alternative semplicemente si bilanciano. «Andremo a Vienna in treno PIUTTOSTO CHE in aereo», in cui risalta abbastanza nettamente una preferenza per la prima rispetto alla seconda. Insomma repetita iuvant: “Piuttosto che” NON significa “oppure”! Etimologicamente parlando piuttosto deriva dall'unione degli avverbi "più" e “tosto”, di cui quest'ultimo un tempo significava “più presto”, poi il significato è cambiato in “più volentieri”, indicando di fatto una preferenza. La locuzione “piuttosto che” introduce quindi un confronto: cioè mette a confronto due elementi di una frase, due alternative, di cui una (una soltanto) è quella contemplata.
Ma molte altre sono le parole abusate all'interno del nostro corredo linguistico quotidiano. Ricordo che, anni orsono, nel bellissimo supplemento culturale de Il Sole 24 Ore, uscì fuori una classifica di parole da buttare, nata grazie al coinvolgimento dei lettori invitati ad esprimersi in tal senso. Tra quelle proposte ne fu creata una hit parade, anzi una shit parade, scusate l'anglicismo. Al primo posto emergeva il prolisso "quant'altro", all'epoca la parola più odiata dai lettori; il secondo posto era occupato dall' inutile "assolutamente sì/no" ed il terzo dall'odioso "un attimino". Logicamente nella classica non poteva certo mancare il "piuttosto che", usato nel senso di oppure che oggi credo abbia di fatto scalato il podio.
Come scrisse Diego Marani, autore dell'articolo pubblicato sul Sole, quasi tutte le parole incriminate vengono dalla televisione e dalla stampa, «cioè da chi per mestiere dovrebbe dar prova di una rigorosa competenza linguistica». Tra agli deplorevoli esempi indicati dai lettori, si andava dall'indisponente "mi consenta", puro lessico da Porta a Porta che serve solo per tenere il microfono e che in semiotica equivale a un grugnito, agli stereotipi delle vacanze, come maxicontresodo, serpentone d'auto e partenze intelligenti, passando al bestiario della meteorologia come morsa del gelo che attanaglia il Nord, allarme rosso siccità che preoccupa il Sud, senza dimenticare Italia spaccata in due dal generale inverno o quando la colonnina di mercurio arriva a temperature africane.
Il cattivo gusto abbraccia anche la cronaca nera tra tragedie annunciate e parenti delle vittime stretti nel dolore oppure quando è subito giallo per l' efferato delitto. Non poteva infine mancare, nella galleria degli orrori, il gergo sportivo con le sue terne arbitrali e triadi difensive che troppo spesso gelano le speranze dei padroni di casa.
Il Maestro Manzi a "Non è mai troppo tardi" |
Come un virus, le parole utilizzate male si diffondono contagiando ed alterando la funzione fondamentale del nostro linguaggio. Parole utilizzate impropriamente che generano solo ambiguità e che restano ahimè ancora solidamente ancorate, deviando semanticamente non solo il lessico comune ma anche quello di studiosi, narratori, giornalisti e uomini politici.
Un post stamattina sulla pagina facebook dell'Accademia della Crusca, ha riacceso l'annosa questione mai veramente risolta, sull'utilizzo improprio delle parole. Nello specifico si parlava del "piuttosto che", odioso intercalare che a partire dagli anni '90 partendo dal settentrione è sceso dilagando come fenomeno sociolinguistico in tutto lo stivale. Come scrive l'Accademia, non c'è giorno che dall'audio della televisione non ci arrivino attestazioni del PIUTTOSTO CHE alla moda, spesso ammannito in serie a raffica: «... piuttosto che ... piuttosto che ... piuttosto che ...» [...]. Eppure non c'è bisogno di essere dei linguisti per rendersi conto dell'inammissibilità nell'uso dell'italiano d'un PIUTTOSTO CHE in sostituzione della disgiuntiva O. [...] un PIUTTOSTO CHE abusivamente equiparato a O può creare ambiguità sostanziali nella comunicazione, può insomma compromettere la funzione fondamentale del linguaggio. Tra gli esempi proposti «Andremo a Vienna in treno O in aereo»; in cui le due alternative semplicemente si bilanciano. «Andremo a Vienna in treno PIUTTOSTO CHE in aereo», in cui risalta abbastanza nettamente una preferenza per la prima rispetto alla seconda. Insomma repetita iuvant: “Piuttosto che” NON significa “oppure”! Etimologicamente parlando piuttosto deriva dall'unione degli avverbi "più" e “tosto”, di cui quest'ultimo un tempo significava “più presto”, poi il significato è cambiato in “più volentieri”, indicando di fatto una preferenza. La locuzione “piuttosto che” introduce quindi un confronto: cioè mette a confronto due elementi di una frase, due alternative, di cui una (una soltanto) è quella contemplata.
Ma molte altre sono le parole abusate all'interno del nostro corredo linguistico quotidiano. Ricordo che, anni orsono, nel bellissimo supplemento culturale de Il Sole 24 Ore, uscì fuori una classifica di parole da buttare, nata grazie al coinvolgimento dei lettori invitati ad esprimersi in tal senso. Tra quelle proposte ne fu creata una hit parade, anzi una shit parade, scusate l'anglicismo. Al primo posto emergeva il prolisso "quant'altro", all'epoca la parola più odiata dai lettori; il secondo posto era occupato dall' inutile "assolutamente sì/no" ed il terzo dall'odioso "un attimino". Logicamente nella classica non poteva certo mancare il "piuttosto che", usato nel senso di oppure che oggi credo abbia di fatto scalato il podio.
Come scrisse Diego Marani, autore dell'articolo pubblicato sul Sole, quasi tutte le parole incriminate vengono dalla televisione e dalla stampa, «cioè da chi per mestiere dovrebbe dar prova di una rigorosa competenza linguistica». Tra agli deplorevoli esempi indicati dai lettori, si andava dall'indisponente "mi consenta", puro lessico da Porta a Porta che serve solo per tenere il microfono e che in semiotica equivale a un grugnito, agli stereotipi delle vacanze, come maxicontresodo, serpentone d'auto e partenze intelligenti, passando al bestiario della meteorologia come morsa del gelo che attanaglia il Nord, allarme rosso siccità che preoccupa il Sud, senza dimenticare Italia spaccata in due dal generale inverno o quando la colonnina di mercurio arriva a temperature africane.
Il cattivo gusto abbraccia anche la cronaca nera tra tragedie annunciate e parenti delle vittime stretti nel dolore oppure quando è subito giallo per l' efferato delitto. Non poteva infine mancare, nella galleria degli orrori, il gergo sportivo con le sue terne arbitrali e triadi difensive che troppo spesso gelano le speranze dei padroni di casa.
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