Palestrina oltre il classicismo: dissonanze espressive, canoni strutturali e nuove prospettive teoriche. La prima giornata del convegno commemorativo a Cremona
Un Palestrina "oltre il classicismo" è quello che è emerso ieri alla prima giornata del convegno internazionale dedicato al compositore prenestino. L'evento organizzato dal Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali dell’Università di Pavia e dall’ADUIM per il cinquecentenario della sua nascita, ha offerto nuove interpretazioni e prospettive nella ri-scoperta della sublime arte del Princeps che per complessità e rilevanza duratura si pone come figura chiave del Rinascimento musicale.
La prima giornata del convegno internazionale dedicato a Giovanni Pierluigi da Palestrina, organizzato dal Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali dell’Università di Pavia e dall’ADUIM per il cinquecentenario della nascita del compositore, ha rivelato nuove prospettive sulla sua musica, proponendola come un sottile equilibrio tra rispetto della tradizione, innovazione e pragmaticità nell’esecuzione.
Come ho già anticipato, tra le numerose celebrazioni dedicate al Princeps Musicae, quella a Palazzo Raimondi, si annuncia come un momento di riflessione feconda per la musicologia, non solo italiana ma internazionale. La prima giornata, di fatto, ce ne ha già data larga prova, mettendo in risalto la tradizione scientifica del dipartimento verso la "musica antica" che risale ai tempi della "scuola di paleografia e filologia musicale".
Il convegno nell'Aula Magna, ha riunito alcuni dei più eminenti ricercatori internazionali per esplorare aspetti della musica palestriniana che, sebbene non sempre al centro dell'attenzione, offrono ancora ampi spazi di studio. Presieduta dal Professor Luca Verzulli, e della Fondazione Stauffer, rappresentata dal Dr. Alessandro Tantardini, la giornata ha aperto la strada ad una ricorrenza che è un invito a ripercorrere le tracce lasciate dal grande compositore rinascimentale, a rileggerne l'eredità con strumenti aggiornati e valutarne le influenze per affrontare i nodi ancora irrisolti.
Il convegno ha purtroppo subito una variazione di programma. Il Professor Peter Akerman a causa di seri motivi di salute, non è potuto intervenire con la sua prolusione iniziale "Palestrina e le Digital Humanities. Nuovi approcci metodologici nella ricerca sulla musica rinascimentale". Ad avviare le giornate scientifiche è stato quindi Noel O'Regan con un intervento sempre molto attuale riguardo la riconsiderazione del linguaggio dissonante di Palestrina, con un'analisi critica della percezione del suo stile compositivo. O'Regan, professore emerito dell'Università di Edimburgo, autore di importanti studi sulla musica sacra romana del tardo XVI e XVII secolo e vincitore del Premio Palestrina nel 1995 per il suo lavoro sul compositore, ha discusso come la comprensione della musica di Palestrina sia stata a lungo dominata dal libro di riferimento di Knud Jeppesen del 1925, "The Style of Palestrina and the Dissonance".
Jeppesen, nel suo studio comparativo delle dissonanze nelle sezioni "Crucifixus" e "Benedictus" delle messe di Palestrina, concluse che il compositore non impiegava la dissonanza per espressione testuale, ma puramente per fini musicali. Tuttavia, O'Regan ha evidenziato come la metodologia di Jeppesen fosse difettosa. Ad esempio, Jeppesen confrontava sezioni che Palestrina usualmente scriveva per voci ridotte in stile imitativo, il che naturalmente comportava un alto livello di dissonanza indipendentemente dal testo. Questa conclusione, supportata da una metodologia imperfetta, ha influenzato la nostra percezione di Palestrina per un secolo.
In contrasto con l'interpretazione di Jeppesen, O'Regan ha sottolineato l'uso espressivo delle dissonanze nelle lamentazioni di Palestrina. Citando Pietro Cerone (1613), che descriveva lo stile delle lamentazioni come caratterizzato da gravità, modestia e un uso più marcato di dissonanze e passaggi aspri per rendere l'opera "più dolente e luttuosa". Sorprendentemente, anche Jeppesen stesso individuò delle "deviazioni" dal suo stile palestriniano canonico proprio nelle lamentazioni, come dissonanze preparate e sospensioni insolite. Jeppesen cercò di marginalizzare questi esempi come rare eccezioni, ma O'Regan suggerisce che essi indicano invece un genere specifico in cui ci si doveva aspettare un uso maggiore della dissonanza. Questa idea è supportata anche da Pietro Poncio (1588) e Peter Akerman (1994), che descrissero lo stile delle lamentazioni con voci che cantano insieme ma con dissonanze per rendere la composizione "lacrimosam et moerens". Il Professor Akerman, in particolare, notò come l'uso di dissonanze di note di passaggio di minima, contribuisca a un effetto particolarmente espressivo.
O'Regan ha poi illustrato come questo "stile delle lamentazioni" fosse occasionalmente utilizzato per scopi espressivi anche nei mottetti di Palestrina, come catene di sospensioni ornamentali e note di passaggio di minima su parole come "Ops" (esclamazione di stupore o dolore) o "Peccavimus" (pentimento e umiltà), citate nella musica di Palestrina, specialmente nei mottetti e, appunto, nelle lamentazioni, come esempi emblematici di "madrigalismi" o figuralismi testuali; momenti in cui il compositore usa la dissonanza e le tensioni melodiche per sottolineare il significato emotivo o drammatico del testo. Anche alcuni madrigalismi, come il trattamento di "In te Domine speravi" descritto come dissonante "ingiustamente" perché contrario alle regole, potrebbero essere visti come un'applicazione dello stile delle lamentazioni. Jeppesen, al contrario, era critico nei confronti dei madrigalismi, considerandoli degradanti per la "purezza" dello stile polifonico.
O'Regan ha concluso che il lavoro di Jeppesen ha sì influenzato l'apprezzamento di Palestrina per gran parte del secolo scorso, ma la ricerca più recente, anche se non ancora pienamente diffusa, sta spostando la nostra comprensione verso un Palestrina più pragmatico. Un compositore che rispondeva in modo flessibile alle mutevoli circostanze del suo tempo, adattando il linguaggio musicale ereditato a nuove situazioni esecutive e spazi, e proprio per questo la sua musica ci parla ancora a 500 anni dalla sua nascita.
Durante il dibattito, è stato notato come la maggior parte delle dissonanze esaminate da O'Regan fossero catene di sospensioni. O'Regan ha spiegato che la nota di passaggio di minima dissonante, sebbene rara in Palestrina, era usata in punti specifici per creare un effetto che, sebbene non evidente oggi, era probabilmente molto dissonante per l'orecchio del XVI secolo. È stato inoltre suggerito di analizzare la percentuale di dissonanze in contesti cadenzali per comprendere meglio lo stile. Si è anche posta la domanda sull'esistenza di una gerarchia di dissonanze, ma non è stato fatto uno studio statistico in merito, sebbene la quarta fosse considerata una dissonanza forte nel periodo.
L'Intervento di Carlo Pintus, dottorando all'Università di Uppsala e curatore di una recente edizione critica della "Missa Pro Defunctis" di Palestrina, ha presentato una ricerca sull'uso dei canoni nelle messe del compositore. Ha sottolineato che, sebbene l'uso dei canoni fosse un tratto distintivo della musica della prima metà del XVI secolo, perdette centralità nella seconda metà. Tuttavia, Palestrina continuò a dimostrare un'attrazione verso questa tecnica, sperimentando nuove soluzioni.
Delle 104 (o 105) messe attribuite a Palestrina, circa un terzo presenta almeno una sezione canonica, con caratteristiche e complessità variabili. Queste possono essere divise in messe con solo alcune sezioni canoniche e messe interamente canoniche. Una costante è l'utilizzo di canoni nell'Agnus Dei II, spesso con l'aggiunta di una o più voci, un approccio in controtendenza rispetto ad altri compositori della sua generazione.
Pintus ha illustrato esempi di canoni in varie messe, come la Missa "Io mi sono giovinetta" (canone a tre voci) e la Missa "Sine nomine" (canone a quattro voci, interpretato come un doppio canone). Ha evidenziato come l'utilizzo sistematico di schemi compositivi in Palestrina possa derivare dall'influenza del repertorio delle cappelle Sistina e Giulia, che mantenevano tecniche arcaiche, come un "ultimo baluardo di un'arte in decadenza". Figure influenti come Costanzo Festa e Cristóbal de Morales, che impiegarono il canone in modo strutturale per rafforzare le sezioni finali di messe e mottetti, ebbero un ruolo determinante su Palestrina.
Pintus ha poi analizzato le cinque messe interamente canoniche di Palestrina, che mostrano una maggiore varietà. La Missa Ad coenam Agni providi (Libro I) è un canone a quattro voci con una quinta voce canonica sempre presente (eccetto nelle sezioni a organico ridotto), con l'Agnus Dei II che espande le voci da cinque a sei. La Missa Ad fugam (Libro II), integralmente canonica, con un doppio canone (due dux e due comites) alla quarta superiore. Il titolo "Ad fugam" è probabilmente una scelta consapevole di Palestrina. Missa Repliata (Libro III) è invece una messa parodia basata su un mottetto di Jacques de Mantova, in cui Palestrina estrapola e sfrutta al massimo il canone originale, espandendolo e comprimendolo in termini di altezza e distanza temporale. La Missa Sine nomine (Libro IX) considerata la messa più audace e sperimentale, con canoni su frammenti diversi in ogni sezione (eccetto Crucifixus e Benedictus). Gli intervalli e le distanze temporali sono disposti in ordine crescente, creando sfide nella gestione della linea melodica e delle dissonanze ed infine Missa Sacerdos et Domini (Libro VIII), una messa a sei voci con un canone "3 in 1" ("Trinitas in unitate"), che Pintus ha interpretato come un esempio di "canoni sovrapposti" (stacked canons) secondo la definizione di Robert Gosman. Questo tipo di canone presenta regole specifiche per la costruzione del Dux al fine di evitare dissonanze. Palestrina utilizzò pause significative tra gli ingressi del canone per separare i soggetti, rendendo le voci meno vincolate.
In conclusione, l'analisi di Pintus ha dimostrato che Palestrina si inserisce in una tradizione preesistente romana, assimilandone i tratti e riproponendoli in un contesto nuovo. Il canone si trasforma da "enigma da risolvere" o "sfoggio di abilità combinatoria" a strumento strutturale, plasmato e adattato al suo metodo compositivo. La sua scrittura, non arcaica ma "arcaicizzante", si integra perfettamente con il contrappunto, mascherando volutamente la percezione dell'incastro.
L'indagine sulla funzione strutturale del canone e il suo ruolo nel processo compositivo di Palestrina rimane aperta a ulteriori approfondimenti. È emerso come il "segreto" della composizione dei canoni fosse probabilmente custodito all'interno della pratica della "composizione non scritta" o dell'improvvisazione, trasmessa attraverso l'insegnamento pratico.
Si è anche dibattuto se la persistenza del canone in Palestrina fosse solo un omaggio alla tradizione o un mezzo per velocizzare la scrittura, dato che la sua padronanza rendeva la composizione canonica meno difficile. Infine, si è notato che i canoni sono quasi esclusivamente usati nelle messe, suggerendo una funzione estetica legata al repertorio sacro e alla formazione del compositore. Si è anche smentita l'idea di un conservatorismo musicale delle cappelle pontificie, attribuendo la conservazione del repertorio a ragioni cerimoniali.
L'ultimo intervento del convegno è stato tenuto da Carlo Sciarrino, assegnista di ricerca presso il dipartimento, che ha illustrato la teoria musicale di Giovanni Battista Doni, umanista fiorentino del XVII secolo, e il modo in cui egli ha analizzato la musica di Palestrina. Doni, con la sua vasta erudizione, propose una riforma dell'organizzazione dello spazio sonoro, basandosi sulle traduzioni del patrimonio greco e sui lavori di Gaffurio, Zarlino e Vicentino. La sua dottrina innovativa, attestata in lettere e trattati, mirava a correggere gran parte della musica dell'epoca.
Un punto fondamentale della teoria di Doni è la separazione tra "modo" e "tono", derivata dalla dottrina tolemaica. Per Doni. Il "tono" (o "tuono") si riferisce al "gran sistema perfetto" o a un "certo luogo della voce", indicando il livello di altezza o trasposizione. Il "modo" invece consiste nella configurazione intervallare, ovvero la "qualità della specie impiegata", che viene poi trasposta su un tono specifico.
Sciarrino ha spiegato che Doni proponeva diversi numeri di toni (3 antichi, 7 tolemaici, 13 aristosseniani, fino a 15), e considerava i modi Eolio e Iastio (Ionico) come toni dipendenti o meno principali. L'analisi di Doni includeva anche una riconsiderazione della musica "cromatica" o "metabolica", che non era vista come una mescolanza di generi, ma come un intreccio di diversi toni.
L'approccio analitico di Doni sui trattati si articola in quattro categorie: rivelare le proprietà di un brano, stabilire l'attribuzione modale, commentare le cadenze e classificare compositori o opere. Doni utilizzava le specie relative a ciascun modo come indicatori principali, e la sua teoria permetteva, ad esempio, di realizzare cadenze in re anche se la finalità modale era in mi.
Per quanto riguarda Palestrina, Doni lo considerava un modello di "modulazioni semplici" in contrasto con compositori come Gesualdo, e un modello di perfezione nell'opera di madrigali. Doni, tuttavia, criticava anche l'abitudine di imitare i poeti nelle composizioni, suggerendo che si parlava più delle "Vergini di Palestrina" che delle "Vergini di Petrarca intonate". Sciarrino ha illustrato due analisi modali di madrigali: Vestiva i colli, caratterizzato da una mescolanza di modi, e Le vergini, con un complesso gioco di trasposizioni e tono che evidenzia come Doni riconsiderasse incluso l’effetto soggettivo di altezza sulla percezione modale.
Questa prima giornata di lavori ha esplorato l’opera di Giovanni Pierluigi da Palestrina evidenziando nuovi aspetti cruciali riguardo all’uso delle dissonanze e ai canoni nelle sue composizioni attraverso un’interpretazione innovativa e critica, distinguendosi dalle tradizionali letture coeve e mettendo in luce la complessità e la modernità del linguaggio musicale rinascimentale. A domani per la seconda giornata di lavori.
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