Ogni cantante lirico, ogni studente di canto che abbia avuto una formazione seria, ha inevitabilmente incontrato il suo nome: Nicola Vaccai. Non tanto nei teatri, dove le sue opere sono ormai rarità da festival, quanto nelle aule di conservatorio, tra le mani degli insegnanti, dentro le prime lezioni di tecnica vocale. Il suo Metodo pratico di canto italiano per camera, pubblicato a Londra nel 1832, è diventato un manuale "classico" della didattica vocale, cantato e studiato in tutto il mondo per quasi due secoli, con oltre cento edizioni in almeno tredici lingue.
Nato a Tolentino nel 1790 da una famiglia di medici, Nicola Vaccai sembrava destinato a una carriera forense. Inviato a Roma per studiare legge, scoprì invece la propria vocazione musicale, completando gli studi con Giuseppe Jannacconi e poi a Napoli con Giovanni Paisiello, maestro degli ultimi fasti della scuola partenopea. A Napoli debuttò con I solitari di Scozia (1815), ma il suo stile rimase sempre "laterale", costantemente in dialogo con il linguaggio rossiniano dominante, ma senza riuscire a imporsi con la stessa forza di personalità.
Le sue opere - ne scrisse diciotto - attraversano più fasi e mostrano una notevole sensibilità drammaturgica. Tra queste, la più celebre è certamente Giulietta e Romeo (Milano, 1825), su libretto di Felice Romani: un’opera lirica snella, asciutta, lontana dal patetismo sentimentale che Bellini porterà poi al successo con I Capuleti e i Montecchi. La versione di Vaccai, però, ebbe un colpo di fortuna: nel 1832, Maria Malibran scelse di sostituire la scena finale di Bellini con quella composta da Vaccai, più adatta alla vocalità contraltile. Da allora quella pagina fu regolarmente inserita come appendice nelle edizioni dell’opera belliniana.
Durante la pandemia da Covid-19, nel 2020, il Teatro Nuovo di New York, diretto da Will Crutchfield, ha prodotto una straordinaria riscoperta: il Bel Canto in trenta minuti, la prima registrazione professionale completa del Metodo pratico di Vaccai. Ventidue cantanti, ciascuno con la propria voce e registro, hanno interpretato una delle ariette, restituendone la varietà e l’efficacia.
Vaccai scrisse il Metodo con un’intuizione geniale: abbandonare la sterile ripetizione di esercizi su sillabe senza senso e introdurre subito lo studio della lingua e della parola attraverso i versi di Metastasio. Come spiegava nella prefazione: <...tutti voglion cantare, ma non voglion faticare>. Il libro, infatti, è strutturato in quindici lezioni progressive, con difficoltà crescenti, pensate sia per gli amatori sia per chi desidera avviarsi alla carriera. Alcune delle ariette finali, osserva Crutchfield, sono oggi proibitive per molti cantanti non specializzati nel repertorio belcantistico.
Il Metodo Pratico si presenta come un percorso pedagogico completo che incapsula l’essenza della tecnica belcantistica ottocentesca, sviluppata in 15 lezioni per un totale di 22 ariette. Le prime cinque lezioni sono interamente dedicate allo studio progressivo del legato attraverso salti intervallari: si percorrono scale, poi salti di terza, quarta, quinta, sesta, settima e ottava, fino ad arrivare a semitoni, allenando la voce alla proporzione, all’equilibrio timbrico e alla stabilità dell’intonazione.
Successivamente, vengono affrontati il ritmo e l’agogica (lezione 6, modo sincopato), quindi introdotte le prime forme di coloratura controllata, come le volate iniziali, le appoggiature (sia superiori sia inferiori), le acciaccature, i mordenti e i gruppetti, ciascuno preceduto da esercizi preparatori e seguito da esempi musicali compiuti.
Negli stadi più avanzati (lezioni 11‑12) si approfondiscono trilli, volate complete e l’uso del portamento, inteso non come glissando, ma come legatura perfetta tra due note senza trascinamento intermedio, seguendo la definizione stessa di Vaccai: "unire perfettamente la nota" senza trascorrere intermedie.
Infine, le lezioni finali (13‑15) introducono il portamento (due tipi), il recitativo e una ricapitolazione, cioè una lezione-concerto che integra tutti gli elementi precedenti: ritmo, ornamenti, salti, legato e testo, offrendo un compendio finale in musica compatta.
In sintesi, Vaccai riesce a fornire un metodo che unisce la progressione tecnica, dal salto di quarta alla coloratura, passando per mordenti, portamenti e recitativo, con l’attenzione alla musicalità, al testo poetico e alla naturalezza vocale. Un autentico microcosmo di belcanto racchiuso in un manuale di appena quindici lezioni.
Come risulta evidente non si tratta di un'opera solo per dilettanti: anche Maria Callas usava Vaccai per il riscaldamento quotidiano, mentre Rossini stesso ne lodava la chiarezza e l’efficacia. Come appena accennato, l’attenzione alla zona centrale della voce, l’articolazione espressiva della parola e l’equilibrio tra rigore tecnico e naturalezza fanno di questo Metodo un microcosmo del belcanto.
Sebbene la fama di Vaccai sia oggi legata soprattutto al suo lavoro pedagogico, la sua produzione operistica contiene pagine di grande interesse.
Zadig e Astartea (Napoli, 1825), ispirata a Voltaire, mostra un gusto teatrale filosofico e introspettivo, con un impianto allegorico che anticipa certi aspetti del grand-opéra. Alterna scene corali e intime, e rivela un’attenzione rara alla coerenza narrativa e alla parola.
Marco Visconti (Torino, 1838), tratta dall’omonimo romanzo storico di Tommaso Grossi, segna un momento di contatto con il teatro drammatico di Donizetti. Divisa in quattro "giornate", ha un respiro narrativo ampio e contiene cori solenni, scene patetiche e una scrittura vocale che mira alla teatralità più che alla brillantezza virtuosistica.
Virginia (Roma, 1845), l’ultima sua opera, è un lavoro ispirato al Risorgimento, costruito con bande musicali interne, grandi masse corali e una solennità alla Spontini. È una delle poche opere italiane dell’epoca a cercare una sintesi tra moralità politica e spettacolo operistico, anticipando alcuni temi del giovane Verdi.
Nicola Vaccai non fu un innovatore rivoluzionario, né un agitatore di estetiche nuove. Ma fu un compositore colto, equilibrato, dotato di un gusto melodico nitido, che seppe incarnare i valori accademici del suo tempo senza rinunciarvi di fronte alla moda. Nella sua carriera come insegnante, prima a Londra, poi a Milano, lasciò un’impronta profonda nella didattica del canto, riformando il piano di studi del Conservatorio e aprendo i repertori agli oratori tedeschi, Händel in primis.
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