Estetica della musica come ambiente esperienziale. Stato dell'arte tra corpo, linguaggio e percezione
L’estetica della musica si presenta oggi come una disciplina aperta, in costante rinegoziazione tra filosofia, scienze cognitive, antropologia del suono e semiotica. Dalla neuroestetica all’embodiment, dalla ricezione culturale alla dimensione simbolica, una mappa delle più recenti prospettive teoriche sull’esperienza musicale come forma di conoscenza incarnata e condivisa.
Nel panorama contemporaneo, l’estetica della musica si configura come un territorio in movimento, segnato da un’apertura senza precedenti verso prospettive interdisciplinari. Le riflessioni su significato, forma e percezione musicale si intrecciano oggi con neuroscienze, filosofia analitica, antropologia e studi della ricezione, tracciando una geografia teorica fluida, dove l’esperienza sonora non si esaurisce più nell’atto contemplativo, ma si realizza nella relazione dinamica tra gesto, ascolto e contesto. La domanda non è più solo che cosa significhi la musica, ma come essa venga vissuta, costruita, interpretata.
Un primo ambito fertile di ricerca è quello che ruota attorno al concetto di estetica enattiva e all’idea delle cosiddette 4E cognition (embodied, embedded, enacted, extended), sviluppata in ambito neurofenomenologico. Il RITMO Centre di Oslo ha pubblicato uno studio innovativo sul concetto di musicking, inteso come pratica incarnata e attiva, in cui l’ascoltatore e il performer non sono entità passive o isolate, ma soggetti coinvolti in una rete dinamica che connette corpo, strumento, spazio e contesto sonoro. La musica, in questa visione, non è tanto un oggetto quanto un’azione, un processo, un’interazione in divenire.
Parallela a questa prospettiva è la recente attenzione verso il timbro come categoria estetica fondante. Lungi dall’essere semplice colore del suono, il timbro si configura come uno spazio percettivo multisensoriale e multiscalare. Una review pubblicata su arXiv nel 2024, basata su ricerche condotte attraverso modelli di intelligenza artificiale e tecniche di neuroimaging, evidenzia come il timbro venga elaborato non solo in funzione descrittiva ma anche affettiva, configurando una vera e propria "grammatica timbrica" che struttura l’ascolto. In questo senso, la dimensione sonora è inseparabile dai meccanismi neurocognitivi che regolano la nostra capacità di riconoscere, prevedere, ricordare e attribuire senso alla musica.
Già nel Rinascimento, i teorici e i compositori avevano compreso la potenzialità della musica nel veicolare stati d’animo attraverso l’uso mirato dei modi musicali, ciascuno dei quali veniva ritenuto idoneo a suscitare o accompagnare una determinata atmosfera emotiva. Questa visione codificata dell’efficacia espressiva fu portata a maturazione tra Sei e Settecento con la cosiddetta teoria degli affetti (Affektenlehre), secondo la quale ogni figura musicale - intervallo, ritmo, gesto melodico - corrispondeva a un’emozione ben precisa: dolore, esaltazione, languore, fervore, solennità. La musica assume così il compito di muovere gli affetti, divenendo un linguaggio dell’interiorità capace di rappresentare, evocare o persino suscitare stati emotivi nell’ascoltatore. Questa concezione, sebbene appartenente a un sistema retorico ormai storicizzato, ha lasciato una profonda eredità nell’immaginario estetico europeo, e costituisce un passaggio fondamentale nella costruzione del pensiero moderno sulla musica come forma espressiva non referenziale, ma empatica e simbolica.
Lo stesso principio della "grammatica timbrica" viene esteso in studi come quello condotto da Abhishek Gupta e C. M. Markan, in cui la misurazione delle reazioni fisiologiche durante l’ascolto musicale – in particolare il fenomeno dei goosebumps - è associata all’attività elettroencefalografica. La musica, dunque, non solo attiva emozioni, ma le struttura secondo modalità riconoscibili, culturalmente apprese e neurobiologicamente tracciabili. L’esperienza estetica si mostra allora come evento complesso, in cui entrano in gioco memoria, dopamina, aspettativa e risoluzione, come dimostrato anche dagli studi del Max Planck Institute for Empirical Aesthetics e del Lake Forest College.
Sul versante della filosofia della musica, le riflessioni si sono concentrate negli ultimi anni sul rapporto tra ascolto e immaginazione. Bradford Skow (MIT), ad esempio, ha esplorato in modo originale la dimensione della simulazione emozionale in musica: immaginare di essere tristi attraverso una composizione non è un atto libero o arbitrario, ma è vincolato dalle forme stesse del suono. La musica, in questa prospettiva, agisce come oggetto dell’immaginazione vincolata, in cui l’udito e la mente co-costruiscono paesaggi emotivi senza bisogno di parole.
Parallelamente, le estetiche culturali e post-coloniali stanno mettendo in discussione l’universalismo implicito che ha spesso guidato la riflessione estetica occidentale. Rubén García‑Benito ha recentemente proposto una critica radicale del concetto di "musicalità naturale", sostenendo che ogni idea di bellezza musicale va ripensata alla luce delle specificità culturali e dell’ascolto situato. Laddove la musicologia novecentesca cercava criteri universali, la contemporaneità valorizza la pluralità: uno stesso intervallo può assumere valori opposti in contesti diversi, e la dissonanza può essere vissuta come piacere in una cultura e come tensione in un’altra. Studi su scala interculturale, pubblicati nel 2025 su arXiv, hanno analizzato oltre 400.000 preferenze musicali in vari contesti globali, dimostrando che parametri come melodia, ritmo e armonia sono tutt’altro che neutri.
In questa direzione si inserisce anche il recupero di estetiche extra-occidentali. La nozione giapponese di ma - concetto che indica lo spazio, l’intervallo, il respiro tra due eventi - è stata ripresa da Austin Oting Har in uno studio pubblicato su Organised Sound (Cambridge University Press), per reinterpretare la musica spaziale contemporanea. Il ma diventa categoria estetica del silenzio, dell’attesa, dell’incompiuto. Non come assenza, ma come pienezza potenziale. Si tratta di un’estetica del non detto che integra, piuttosto che opporsi, alla logica occidentale della struttura.
La sistematizzazione teorica di queste prospettive trova oggi un punto di incontro nella cosiddetta systematic musicology, un campo multidisciplinare che abbraccia informatica musicale, psicologia dell’ascolto, linguistica, studi cognitivi e teoria dell’informazione. Qui, la musica non è solo analizzata come forma, ma interpretata come sistema: un insieme di relazioni che emergono nell’interazione tra struttura compositiva, interpretazione e fruizione. Il pensiero sistemico, lungi dal ridurre l’estetica a funzione, restituisce complessità e profondità a un fenomeno irriducibile come quello musicale.
Alla luce di queste acquisizioni, mi sembra ormai indispensabile riformulare il campo dell’estetica musicale come campo reticolare. Una disciplina non più verticalmente organizzata secondo modelli di derivazione filosofico-idealista, ma orizzontalmente aperta, dove coesistono - in tensione e in dialogo - dati empirici, esperienze percettive, istanze storiche, vincoli culturali e atti immaginativi. In questo scenario, la musica non è più soltanto forma, né solo espressione: è atto vissuto, costruzione relazionale, gesto che attraversa la storia e il corpo.
Lungi dal voler sistematizzare in maniera definitiva ciò che per sua natura sfugge alla fissazione teorica, questa riflessione vuole suggerire una postura: osservare l’estetica musicale da dentro, in ascolto costante del suono e di ciò che il suono solleva - come un’onda che non si esaurisce nell’orecchio, ma prosegue nel pensiero, nel ricordo, nel corpo che vibra.
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