L’Italia sempre più verde con gli orti urbani
Gustave Caillebotte, Les Jardiniers, 1875-1877
La rinascita degli orti urbani in Italia, frutta e verdura fresca a chilometri zero e non solo: luogo di incontro, di coesione sociale e di educazione anche per i più piccoli: in arrivo progetti per portare gli orti nelle scuole
L'agricoltura urbana rappresenta il collegamento concreto più diretto e antico tra realtà cittadina e cultura contadina. La manifestazione visibile di tale legame è rappresentata dagli orti urbani. Si tratta, generalmente, di piccoli appezzamenti di terreno, in molti casi abusivi, coltivati direttamente dai proprietari o da regolari affittuari.
Gli orti urbani, quando non sono regolamentati, si caratterizzano
per la forma variabile, per le recinzioni ottenute con materiale di recupero e
per la loro ubicazione in zone marginali delle città (sponde dei fiumi, aree
limitrofe alle linee ferroviarie e alle grandi arterie stradali cittadine, aree
abbandonate di proprietà demaniale o privata).
Accompagnando da sempre lo sviluppo e le trasformazioni
urbanistiche della città permettono agli "orticoltori urbani" di
mantenere un rapporto con la cultura contadina che, nell'immaginario
collettivo, è vissuta come cultura delle origini.
Coltivazioni orticole erano presenti all'interno delle aree
urbane italiane già dalla prima metà del XIX° secolo, tale presenza accompagnò
lo sviluppo della città nei decenni successivi integrandosi alle trasformazioni
urbanistiche che in quegli anni caratterizzarono molte di esse, in particolare
del nord Italia. In questo periodo e nei primi decenni del secolo successivo,
il carattere autonomo e spontaneo degli orti urbani coesiste con iniziali forme
di assegnazione e gestione di aree orticole messe in atto direttamente da
imprenditori industriali attraverso i cosiddetti "villaggi operai".
Ma è con il boom della produzione industriale della seconda
metà del XX° secolo che il fenomeno degli orti cittadini assume proporzioni
importanti. Il grande sviluppo industriale che negli anni '50, '60 e '70
caratterizza fasce importanti del territorio settentrionale italiano investe in
particolare le cosiddette aree periurbane, cioè quelle zone di
"transizione" tra città e campagna destinate storicamente ad
accogliere determinate attività (grandi impianti industriali, infrastrutture
ferroviarie e aeroportuali, cimiteri, ecc.) e che in quegli anni furono
inglobate all'interno delle città, caratterizzandosi però per il diffuso
degrado e l'isolamento sociale tipici dei quartieri dell'estrema periferia
cittadina. Sono queste le zone in cui saranno edificati i complessi abitativi
destinati alla nuova manodopera industriale proveniente dalle regioni
dell'Italia meridionale, e sono queste le aree in cui il fenomeno degli orti
urbani avrà il suo massimo sviluppo.
Il caso di Torino è significativo a riguardo: nella città
piemontese, nel 1980, su una popolazione residente di 1.143.263 abitanti
risultava una superficie ortiva di 146,4 ettari. L'ampiezza del fenomeno spinse
l'Amministrazione Comunale, nell'ambito di un ampio progetto di
riqualificazione di aree marginali della città e di regolamentazione degli
spazi ortivi in esse presenti, ad avviare il primo studio italiano sul fenomeno
degli orti urbani. Il progetto fu preceduto da una attenta analisi del fenomeno
sul campo (la prima del genere in Italia) dalla quale emerse che gli artefici
del boom orticolo torinese erano gli immigrati meridionali: contadini,
braccianti, pastori che, costretti a trasformarsi in operai nelle grandi
fabbriche, mantenevano un rapporto con la loro cultura d'origine attraverso la
coltivazione di decine di migliaia di piccoli appezzamenti, ricavati lungo le
rive dei fiumi cittadini, lungo le reti ferroviarie, i tracciati viari e in
qualunque altro pezzo di terreno residuale.
Un’integrazione al reddito, ottenuta con grande fatica
(spesso i terreni si presentavano come vere e proprie discariche), ma anche la
volontà di recuperare valori ed esperienze lontani attraverso strumenti come la
terra e l'agricoltura legati al vissuto di questi nuovi contadini operai.
L'orto dunque si rivelava elemento di identificazione per gli immigrati, ma non
solo; esso rappresentava anche opportunità di svago, di impiego del tempo
libero, un'occasione di ritrovo.
Il riconoscimento dell'importanza sociale del fenomeno orti
urbani e l'esigenza di contenerne gli aspetti di spontaneità e abusivismo, si
tradussero, negli anni '80, nella redazione dei primi regolamenti per
l'assegnazione di aree orticole ai cittadini interessati da parte delle
amministrazioni comunali. Collegati alle politiche a favore delle classi
disagiate (anziani, disoccupati, disabili), i regolamenti per assegnazione
degli orti in base a criteri sociali rappresentano il primo passo verso la fine
della spontaneità del fenomeno.
Il primo regolamento italiano di orti sociali comunali fu
redatto a Modena nel 1980, in virtù del quale furono assegnati, a pensionati di
età superiore ai 55 anni, sei orti su un terreno suburbano non edificabile. Da allora molte amministrazioni comunali, soprattutto in
Italia settentrionale, hanno fatto altrettanto, andando incontro a una sempre
maggiore richiesta dei residenti di terra da coltivare. Gli orti urbani vengono generalmente dati in comodato d’uso gratuito con destinazione al
consumo familiare e non a scopo di lucro. Secondo una ricerca della Coldiretti in Italia nel 2013 già occupavano un'area di 3,3 milioni di mq.
Un altro aspetto interessante degli orti è che non danno
semplicemente la possibilità di ottenere frutta e verdura, ma rappresentano
anche un luogo di incontro, di coesione sociale e di educazione anche per i più
piccoli. Al giorno d’oggi infatti molti bambini, soprattutto quelli che vivono
in città, non sanno distinguere una zucchina da un cetriolo, non hanno mai
sentito la sensazione della terra tra le mani e sono convinti che il latte sia
prodotto dal supermercato.
Come possiamo pensare che le generazioni future abbiano
rispetto per il cibo se non siamo noi,
per primi, ad insegnarglielo? Ecco che da questo punto di vista gli orti
comunali ci vengono in aiuto. Così molti sono affidati ad asili e scuole in
modo che i bambini possano diventare piccoli agricoltori e capire quanto è
importante quello che mangiamo: quanto tempo e quanta fatica occorre per far
crescere anche solo una piccola piantina.
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