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I Musei Vaticani svelano la collezione di micromosaici: un viaggio nel Grand Tour attraverso l’arte del dettaglio

Potremmo considerarli souvenir ante litteram del Grand Tour, quelli esposti presso i Musei Vaticani in una mostra permanente appena inaugurata. Si tratta di una rara collezione di micromosaici che conta quasi 500 capolavori. Tabacchiere, fermacarte, gioielli e persino tavoli decorati con vedute archeologiche: erano i ricordi che i giovani viaggiatori, affascinati dalle rovine di Pompei, dal Colosseo o dai paesaggi della campagna romana, desideravano portare con sé come ricordo tangibile della Città Eterna. 

Domenico Moglia, Il Colosseo, micromosaic in vetro su marmo, c. 1850

I Musei Vaticani hanno inaugurato un nuovo allestimento permanente dedicato a una delle espressioni artistiche più raffinate del Settecento: i micromosaici. Ospitata nelle Sale Paoline delle Gallerie Inferiori, la collezione conta quasi 500 capolavori realizzati con tessere di smalto vetroso di dimensioni inferiori al millimetro, un’arte nata nello Studio del Mosaico Vaticano nel 1727 e perfezionata nel 1795.  

La raccolta, acquisita negli anni ’90 del Novecento dall’allora direttore Carlo Pietrangeli, apparteneva originariamente al collezionista Domenico Petochi, autore del volume I mosaici minuti romani (1981), testo di riferimento per gli studi sul tema. Esposti per la prima volta in modo permanente, questi oggetti – un tempo conservati in ambienti accessibili solo in occasioni speciali – trovano ora dimora negli antichi armadi della Biblioteca Vaticana, un tempo destinati a custodire manoscritti.  

Barbara Jatta, direttrice dei Musei Vaticani, sottolinea: «È forse una delle collezioni più importanti al mondo di micromosaici. Sono testimoni del gusto europeo a cavallo tra Sette e Ottocento, nati per una fruizione intima».  

Il micromosaico rappresenta l'unione tra arte e viaggio. Nato per sostituire gli affreschi deteriorabili della Basilica di San Pietro, divenne presto un simbolo del Grand Tour, il viaggio di formazione che tra il XVII e il XIX secolo portò aristocratici e intellettuali europei a scoprire le bellezze di Roma. 

I giovani viaggiatori, affascinati dalle rovine di Pompei, dal Colosseo o dai paesaggi della campagna romana, desideravano portare con sé un ricordo tangibile della Città Eterna. Così, abili artigiani romani iniziarono a produrre oggetti di lusso in micromosaico: tabacchiere, fermacarte, gioielli e persino tavoli decorati con vedute archeologiche.  

Tra i pezzi più significativi spiccano Il tavolo di Paul Sormani (XIX secolo), con vedute di Roma incorniciate da bronzo dorato. Scrigni firmati da Cesare Roccheggiani, artigiano romano celebre per i suoi lavori in micromosaico.  

L'esposizione comprende inoltre «Il cielo d’Italia» di Michelangelo Barberi (1820): un tavolo con 12 vedute di Roma, oggi all’Hermitage, che evoca la nostalgia per il paesaggio classico. «Le colombe di Plinio»: motivo ricorrente su scrigni e portagioie, ispirato a un mosaico pompeiano. «Vedute della Campagna Romana»: miniature su tabacchiere, citate nel volume Nuova Raccolta di 100 vedutine antiche di Domenico Pronti (1795). «Apollo del Belvedere» su una tabacchiera: fusione tra arte classica e oggettistica quotidiana, definita da Alvar González-Palacios «il recto e il verso dell’anima italiana».  

La realizzazione di un micromosaico richiedeva una maestria senza pari. Le tessere, ottenute filando smalti vetrosi, misuravano meno di 1 mm di spessore e venivano posizionate con pinzette e lime. In alcuni esemplari si contano fino a 1.000 tessere per cm², come nel caso delle riproduzioni del Pantheon o del Foro Romano.  

Nonostante il successo, questa arte fu inizialmente disprezzata da figure come Winckelmann e Goethe, che la consideravano un «capriccio muliebre». Solo con l’intervento di Antonio Canova, che nel 1804 scelse micromosaici come doni diplomatici di Pio VII a Napoleone, ottenne riconoscimento ufficiale.  

Curato da Luca Pesante del Reparto Arti Decorative, il percorso espositivo si ispira al saggio Nostalgia e invenzione di Alvar González-Palacios. «Nostalgia, perché questi oggetti parlano di un passato che non c’è più», spiega Pesante. «Invenzione, perché rappresentano un’arte nuova, radicata nella tradizione classica».  

Questo allestimento non è solo una celebrazione dell’artigianato, ma un invito a riscoprire un’arte che unisce precisione tecnica e poesia. Come sottolinea Jatta, i micromosaici sono «testimoni di un’epoca in cui il viaggio era un rito di passaggio e la bellezza un linguaggio universale».  

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