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La visita al Padre, una novella di Mario Soldati

La visita al Padre, un racconto tratto da 44 novelle per l'estate di Mario Soldati
Che vale fuggire ormai? Che cosa importa? Leviamo il bicchiere che brilla come oro nel sole, contro l'ombra cupa dei lecci. Tocchiamo e beviamo: felici

La visita al padre, fa parte di una raccolta di 44 racconti brevi e lunghi, che Soldati raccoglie in un suo libro uscito nel 1979. Ho scelto questa breve novella perché secondo me, ben esprime alcuni temi con una delicatezza che è tanto familiare nella scrittura di Soldati. "Una assoluta leggerezza" come amava definire Pasolini. "Un rapporto col lettore non autoritario, ma mitemente fraterno". Una scrittura intelligente, che dona, come spesso accade nella poetica dell'indimenticato scrittore torinese, un sottile e imprevisto senso di felicità. 


Amicizia e fratellanza, ma anche speranza e profondo senso religioso, questi sono in sintesi i temi principali e chiave di lettura di questa novella. Una gioia di vivere quella di Soldati che si manifesta costantemente nei tratti di una penna che ci conduce in un "altrove", ad incontrare la personalità umana ed intellettuale di uno scrittore in cui tutti questi sentimenti occupano uno spazio particolare: “gli amici non si scelgono”, amava definire, come non aveva di certo scelto Enrico "il Padre", ora qui insieme in un primo e vero incontro dopo la fine della maturità e dopo l'inizio della vecchiezza, quando infinitamente più di loro, intanto era cambiato il mondo. 

Tutte le narrazioni di Soldati di questa raccolta, come evidenzia nell'introduzione, Giorgio Bassani, sanno ormai parlare di qualsiasi cosa: di ogni più piccola e di ogni più grande. Scritte in una lingua ricca, varia e capace di restituire qualsiasi aspetto dell'esistente, storie che risultano tutte straordinariamente credibili, vere. Insomma poetiche. Buona lettura.


La visita al Padre


Un semaforo rosso piuttosto che verde, una curva affrontata con eccessiva prudenza, un attesa insolita al casello di Sarzana perché, supponiamo, mancano al casellante gli spiccioli del resto: qualunque minimo caso, che avesse prolungato di mezzo minuto il viaggio da Milano a Tellaro la sera di sabato scorso, sarebbe bastato a privarmi, chi sa per quanto tempo ancora, del piacere di rivedere Enrico. Infatti avevo appena aperto la porta, il telefono squillò. Erano le dieci passate: solo un amico può telefonare a quell'ora, oppure è qualcosa di imprevisto, urgente, e magari sgradevole.
   Ma era Enrico: un amico, e un amico che non vedevo da quindici anni, forse più. Non telefonava da Torino, telefonava da poco distante: teneva compagnia, per qualche giorno,  ad un Padre rimasto solo nella piccola casa che i Gesuiti hanno a Carrara. Mi aveva già chiamato varie volte senza che nessuno rispondesse, ormai non sperava più di trovarmi.
   " Domani è domenica" dissi. "Se in fine di mattinata sei libero, vieni a trovarmi, vieni a colazione."    Ringraziò, sarebbe venuto con entusiasmo. Gli domandai se aveva la macchina. 
   Rise a lungo, poi rispose:
   " No, no, no. Prendo il treno. "
   Perché quella risata? Non mi pareva di aver fatto una gaffe: naturalmente, i miei ricordi lontani d'infanzia e adolescenza non includono l'immagine di un Padre al volante: ma figuriamoci se oggi non guidano anche i Gesuiti! Perché, quella risata? Gli dissi, ad ogni buon conto, che non guidavo neanche io.
   " Guida mia moglie. Allora veniamo a prenderti alla stazione di Sarzana. Un attimo guardo l'orario."
    " Non importa, lo so: il treno arriva alle undici e ventinove. "
   Che Enrico, fedele allo stile della Compagnia, avesse programmato con precisione la sua visita a Tellaro, ma non mi sorprendeva, anzi:
   " Mi fa così piacere di vederti, finalmente! Ma lo sai che se telefonavi mezzo minuto prima non mi trovavi? "
   " Eh già, avrei pensato che eri via, e avrei rinunciato. Domani è l'ultimo giorno di Carrara, lunedì torno a Torino. "
 Non c'è dubbio: segno della Provvidenza o traccia del destino, quel fortunato sincronismo in extremis mi aveva commosso. Ma tosto, posando il telefono, mi dissi che, in fondo, ci commuovono solo le coincidenze a cui siamo preparati e che desideriamo avvengano: delle altre non ci curiamo, molte volte non ce ne accorgiamo neanche.

   Compagni di scuola a Torino, in un istituto dei Padri, dal 1912 al 1922: Enrico un po' più vecchio di me, io due classi indietro; lui convittore, io esterno: ci eravamo lasciati un giorno per lui solenne e memorabile, a Porta Nuova: lo avevo accompagnato al treno: lui abbandonava il mondo, partiva per Gozzano, entrava in Noviziato. Dal momento dei quell'addio, non ci eravamo più visti fino a tredici anni dopo: nel gennaio del 1935, per caso, alla stazione di Borgomanero: e avevamo viaggiato insieme fino a Gozzano dove lui, ormai ordinato sacerdote, tornava per un breve ritiro. Infine, dopo la guerra, ci eravamo ritrovati a Torino, non più di tre o quattro volte in tutto, perseverando però ambedue in una rada, regolare, affettuosa corrispondenza.
   Questo era dunque il nostro primo e vero incontro dopo la fine della maturità e dopo l'inizio della vecchiezza. Infinitamente più di noi, intanto era cambiato il mondo.
   Ed ecco, adesso, Enrico di nuovo: come quarant'anni fa a Borgomanero: appena sceso dal treno, sulla banchina, tra le rotaie.
   Sempre stazioni e treni, a quanto pare, per noi! Ma allora, la lunga ampia svolazzante veste nera e il nero cappello, spiccando sul biancore della neve, isolarono la sua figura smilza cosicché la riconobbi subito anche di lontano e nella luce azzurrognola del precoce crepuscolo autunnale: stamane, invece, sotto un sole di mezzodì, mediterraneo, e ancora estivo, il grigio spento del clergyman lo avrebbe aiutato a confondersi con la folla dei viaggiatori se proprio l'assenza così poco ecclesiastica del cappello non mi avesse permesso di scorgere senza ritardo i suoi capelli ricci, corti, e misteriosamente biondi come una volta.
   Come prima, più di prima, amici: nel bosco in riva al mare, davanti la tavola preparata; Enrico è tra me e mia moglie: all'improvviso si leva in piedi:
   " Se permettete, vi do una benedizione... " e con l'accento della brevissima preghiera e col semplice gesto trasforma per un attimo la nostra mensa in altare.
   Amici come prima, più di prima. Enrico si è tolta la triste giacca da clergyman, il solino duro con la pettorina nera: è rimasto in maniche di camicia, una camicia marrone scuro, ma lucida, di nailon. Tra  sole e ombra, nella soavità della brezza marina, nel tranquillo tremolìo e luccichìo delle macchioline di sole che filtrano tra le foglie dei lecci fin sul tavolo, facciamo colazione, come dice il Porta, " in santa libertà " : e con una straordinaria, strana allegria. Strana perché il tema della nostra conversazione è tutt'altro che allegro, specialmente per Enrico.
   " Viviamo in un epoca pazza, incredibile " dice, e comincia a ridere: " Io, lo sai, sono Padre Spirituale all'Istituto, a Torino: quindi, mi trovo sempre in mezzo ai giovani. E' così difficile capirli. Eppure, bisogna capirli. E io cerco di capirli. E forse, un po', ormai li capisco. Ma è difficile, bisogna abituarsi. Sai come ha detto il parroco di un paesetto non lontano da Torino? " Anch'eui, i balìn, a i ciamu carismi, e le cantunà, a le ciamu esperimenti! " (Oggi, i pallini, le fissazioni, li chiamano carismi, e le cantonate, esperimenti.)
   L'ilaritàsembra travolgerlo: Ripeto anch'io, ripetiamo insieme, ridendo: " Baliìn, carismi, cantunà, esperimenti... " Ricordo di aver letto, mesi fa, sul "New York Times", qualcosa di simile. Per caso ho il ritaglio in tasca, in un libretto di appunti. E' una critica di Anatole Broyard. Traduco:
   " Naturalmente, oggi ci siamo liberati di una certa ristrettezza di vedute, da una certa paralisi, da un certo bigottismo, con la sua monotona insistenza nel ridurre le azioni a impulsi, e, qualunque fede ridurla a ciò che empiricamente può essere dimostrato. La nostra millantata novità ha una tendenza paradossale a lasciarci annoiati, apatici, se non addirittura disperati ". Se il più famoso critico letterario di Manhattan e un piccolo parroco del Piemonte si incontrano, è probabile che non siano lontani dalla verità
   Parliamo, ora, e come si potrebbe non parlarne? Di quello che ha detto il Papa, mercoledì scorso, undici settembre, a Castel Gandolfo. Paolo VI, questa volta, ha stupito tutti, chierici e laici, da Pasolini all'ultimo dei seminaristi, e non perché abbia detto qualcosa che tutti ignoravamo ma, al contrario, perché ha detto finalmente e chiaramente qualcosa che tutti sapevano troppo bene, e di cui i chierici, in pubblico, tacevano volentieri ma i laici, in privato, preferivano non parlare, come per un resto di ipocrisia che poteva anche mascherare una nostalgia di fede.
   " Ma dimmi, Enrico, è proprio vero, vero fino a questo punto, che non ci sono più vocazioni? Il noviziato a Gozzano lo avete sempre, però! Una casa così bella! "
   " Gozzano?! " Enrico ricomincia a ridere: " Gozzano, sono anni che non c'è più. Venduto ".
   " Ma la Teologia e la Filosofia, Casa S. Antonio, a Chieri? "
   " Niente, niente, più niente, venduti. C'è un pensionato adesso. "
   " E la Villa Luigina? "
   " Venduta! "
   " E la Villa di riposo per i Padri, ad Avigliana? "
   " Villa S. Tommaso? Niente, venduta! "
   A ogni "venduto" la risata di Enrico cresceva come per un' esultanza strana e disperata, intima ma incontenibile.
   " Insomma, quanti noviziati ha la Compagnia oggi? "
   " Quanti? Ma, caro, in tutta Italia, uno solo: a Ciampino! "
   " E, dicendo "Ciampino", la sua risata esplode, risuona alta nel bosco, tra i canti degli uccelli, come se l'amarezza, non trovando più limiti, si trasformasse inconsapevolmente in allegria.
   " Ma i collegi, li avete ancora, vero? I collegi per i ragazzi? "
   " I collegi? Vuoi dire i convitti" Ebbene no! Non li abbiamo più, neanche uno! "
   " Neanche l'Arecco a Genova? Neanche Cuneo? "
   " Neanche uno. Nessuno. Finito, ti dico, finito. Costava troppo, un convitto. Pensa soltanto al personale. Lo sai che non abbiamo più fratelli? Scarseggiano i Padri, ma i Fratelli non esistono addirittura più. Niente più convitti, dunque, solo scuole, ginnasi, licei: e miste, ormai, miste, anche a Torino! "
   " Cosa vuoi dire, miste? "
   " Miste: per alunni maschi e alunne femmine: voglio dire che ci sono anche le ragazze! "
   " Le ragazze in una scuola tenuta dai Gesuiti?! "
   Trasecolavo: ero incapace di arrendermi senz'altro a qualcosa che mi sembrava assurdo: Ma vuoi proprio dire le ragazze, le donne, nelle stesse classi, sugli stessi banchi insieme ai ragazzi?! "
   " Ma sì! Sì! Sì! ". Ormai l'ilarità di Enrico non ha più freno: " E come se non bastasse vengono a scuola coi cosiddetti blue-jeans: e con certi sederoni, a volte, che bisogna evitare di chiamarle alla lavagna perché la classe è presa dal fou rire e non si può più andare avanti a far lezione! "
   " Classi miste dai Gesuiti... " mormoro tra di me sordamente. 
   " Eh sì, mio caro, " sospira infine Enrico, tra le lacrime che gli sono venute a forza di ridere: " Se ce lo avessero detto... non avremmo mai creduto che sarebbe stato possibile. Invece, eccoci qua. E questo non è niente, caro Mario: continueremo a vederne di belle... "
   " Il fatto è, " mi pare di dover concludere " che eravamo abituati ad un sistema, e in particolare ad una Chiesa, che era press'a poco la stessa da secoli... da... "
   " Dal Concilio di Trento! " esclama Enrico
   " Quattro secoli e undici anni! Il Concilio si è chiuso nel 1563. "
   " Una Chiesa, " dico " una Chiesa che per quattro secoli, fino a undici anni fa, praticamente sapevamo che era rimasta immobile, immutabile, e alla quale ci eravamo affezionati proprio perché era così: e che in questi ultimi undici anni, ormai lo vediamo tutti, è un altra, stravolta, diversa. E questa esperienza doveva capitare proprio a noi, alla nostra generazione. "
   " Veramente è capitato a me. Perché tu, almeno, non sei prete. "
   " E, dimmi, le vocazioni scarseggiano lo stesso anche nelle altre nazioni, anche fuori d'Italia? "
  " Non proprio dappertutto. Lo sai dove ne abbiamo molte? In Polonia per esempio: in Polonia e in Croazia. "
   Mia moglie, che è nata ad Otochaz, si rianima, interviene: 
  " Ma sì, le cose cambiano... adesso è un momento così, brutto... Ma poi, col tempo, magari tutto si aggiusta... "
   " E' quello che penso anch'io, " dice Enrico calmandosi, e sostituendo a quel riso esasperato, esagerato, un sorriso dolce, che sembra di rassegnazione, forse perfino di speranza, " a poco a poco ci si abituerà, tutto il male non verrà per nuocere, e qualche cosa di buono nascerà".
  "Levo il bicchiere che brilla come oro nel sole, contro l'ombra verde cupa dei lecci. Tocchiamo e beviamo: felici, Enrico e io, di essere ancora vivi, ancora insieme. Ma più nel profondo felici, senza saperlo in quel momento, e me ne accorgo, e me lo dico soltanto adesso, ripensandoci a qualche giorno di distanza: felici più nel profondo di una felicità come di superstiti.
   Superstite anch'io. Perché non sono prete, no, e non so neanche se credo né in Chi credo. Ma ho vissuto gli anni decisivi, gli anni più importanti della mia vita circondato da Padri gesuiti: e questo è moltissimo, quasi un carattere che non si cancella.

Che cosa aveva detto il Papa a Castel Gandolfo l'undici settembre? Ecco qualche frase del suo discorso: "... La Chiesa è in difficoltà di fronte al mondo... Si direbbe che un abisso all'apparenza incolmabile si sia scavato tra il pensiero moderno e la vecchia mentalità religiosa ed ecclesiale... L'abbandono dell'osservanza religiosa da parte di popolazioni intere... Il materialismo delle masse, insensibili ad ogni richiamo spirituale... "
   " Pasolini ha scritto, su questo discorso del Papa, un bellissimo articolo, acuto e appassionato. Ma la sua conclusione ("o la chiesa fa propria la traumatizzante maschera del Paolo VI folcloristico che gioca con la tragedia, o fa propria la tragica sincerità del Paolo VI che annuncia temerariamente la sua fine") è troppo semplice: infinite, invece, sono e saranno le soluzioni.
   Più vicino forse al vero è il cauto ottimismo del cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino: "Non vorrei essere frainteso quando parlo di crisi. Questa parola non è da prendere puramente in senso negativo... Che un tale processo, di segno chiaramente positivo, sia in atto nella Chiesa d'oggi, credo si possa riconoscere da diversi indizi". Diversi indizi? Quali? Intanto, non mi ero spiegato una cosa: perché Enrico aveva riso tanto, e perché aveva cominciato a ridere, al telefono, quando gli avevo chiesto se aveva la macchina?
   Solo dopo ho capito che cosa significava quella risata. Era come un dirmi: 'Non solo tutti gli altri, caro Mario, ma tu quoque, anche tu, pensi che un Padre gesuita debba avere la macchina e andare in macchina!' Insomma, la mia domanda (Hai la macchina?) era stata per lui come una goccia che fa traboccare il vaso: l'ultimo segno di un naufragio universale! Come si poteva fare, ormai, a non ridere?!
   Una risata tragica: Un allegria da naufraghi. Ecco il senso, ora capivo, di tutto quel suo ridere. Eppure... eppure, non era soltanto così.
   C'era, in fondo a quell'allegria sfrenata e quasi isterica, come un piccolo lago di calma, di serenità finale, di speranza. Il sorriso pacato del brindisi, con cui chiudemmo la colazione: Come se Enrico sentisse, senza nemmeno dirselo, che finalmente la Chiesa si avvicinava alla verità, alla povertà, all'amore vero, a tutto ciò che possono provare soltanto gli esclusi, i disperati, i perseguitati, i superstiti. Una parte di quella allegria, dunque, era tutt'altro che tragica: era, anzi, un supremo sospiro di liberazione dal lungo compromesso col mondo.
   Come il giocatore d'azzardo non è un vero giocatore se non desidera di vincere e se non cerca sempre, ad ogni costo, di vincere, ma, insieme, non è un vero giocatore se non accetta ogni volta la sconfitta con grande allegria e se, in pratica, non finisce poi sempre col perdere - così la Chiesa (il paragone risale a Pascal) non sarebbe la Chiesa se non cercasse il trionfo anche quaggiù, un trionfo anche politico, sociale, culturale, un simbolo del Regno ultraterreno in cui essa crede: ma, insieme, la Chiesa non sarebbe la Chiesa se poi, in pratica, non finisse calpestata, disprezzata, perseguitata.

   Da qualche secolo, almeno, dal Concilio di Trento in poi, come senza volerlo mi ha suggerito Enrico, la Chiesa non conosceva, aveva dimenticato questa profonda allegria delle sconfitte.
   Non penso, tuttavia,  che Enrico mi segua fino qui: non penso che sarà completamente d'accordo con me, quando leggerà queste righe. Ma non è necessario che lo sia.
   Non è necessario che la Chiesa sappia il segreto della propria divinità. Anzi, forse, è necessario che non lo sappia: e che non ci creda. Non ci creda neanche quando, come adesso da me, se lo sente dire.

settembre 1974

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