Claudio Monteverdi rimane una delle figure più affascinanti e decisive della storia della musica. Nella sua scrittura la parola non è un semplice veicolo del canto, ma ne diventa il motore espressivo: ogni sillaba, ogni inflessione nasce dal bisogno di comunicare un’emozione autentica. È in questa "eloquenza musicale" che si riconosce la sua modernità, quella che nel Seicento prese il nome di seconda prattica, e che avrebbe cambiato per sempre il rapporto tra testo e musica. Una riflessione sul senso di questa rivoluzione, le sfide tecniche ed esecutive che ancora oggi pone ai cantanti, e il lungo percorso di riscoperta che, dal primo Novecento con D’Annunzio e Malipiero, ha riportato Monteverdi al centro della scena musicale contemporanea.

La riscoperta di Monteverdi nel Novecento rappresenta una delle pagine più significative della cultura musicale italiana. Dall’iniziale interesse estetico di Gabriele D’Annunzio, che riconosceva nel compositore una purezza primigenia contrapposta al sentimentalismo verista, a Gian Francesco Malipiero che, qualche decennio più tardi, ne raccolse l’eredità curando l’Opera Omnia e riportando la sua musica al centro del dibattito.
L’estetica umanistico-rinascimentale di Monteverdi si fonda sull’unità tra parola e suono, principio cardine della seconda prattica e contrapposto alla rigidità contrappuntistica della prima. Si tratta di un equilibrio sottile che prende forma nella voce, capace di trasformare il testo in espressione viva. Per questo studiosi come Annibale Gianuario hanno sottolineato l’importanza di tornare alle fonti originali, evitando le "falsificazioni storiche" che nel tempo hanno alterato l’armonia, la dizione e perfino la respirazione del canto monteverdiano.
Claudio Monteverdi non è soltanto un nome nella storia della musica antica, è una soglia attraverso la quale si misura il passaggio dall’eleganza misurata del tardo Rinascimento alla forza espressiva e poetica che avrebbe modellato quello che oggi chiamiamo primo Barocco. È nella sua sensibilità verso la parola musicale che risiede, a mio giudizio, l’elemento più rivoluzionario, quindi non la mera variazione stilistica, ma una ridefinizione del vincolo tra testo e suono, tra affetto e declamazione.
La seconda prattica non fu un vezzo formale, ma una risposta profonda alla necessità di restituire alla parola la sua vocalità originaria, capace di esprimere gli affetti umani con chiarezza e forza. Nelle sue lettere e prefazioni Monteverdi affermò che la "perfetione della moderna musica consiste nel seguire l’oratione", quindi non più il testo piegato alle regole del contrappunto, ma la musica al servizio della parola. È una svolta radicale rispetto al sistema dell’"armonia comandante" che dominava la prima prattica; nella sua concezione, ritmo, accenti, scelte melodiche e dissonanze nascono dal verso, dal senso semantico della sillaba, dall’intensità emotiva insita nel testo, e non dalle esigenze ingegneristiche della linea armonica.
Questa presa di coscienza rende Monteverdi non soltanto un compositore innovativo, ma un teorico della voce emotiva: la sua maggiore libertà di scrittura, trasforma la dissonanza in un elemento narrativo e affettivo, non più conflitto da rivestire con regole ma impulso drammatico da proporre alla parola stessa.
L’effetto drammatico di questa scelta si riflette nella concezione stessa della tecnica vocale. Il canto monteverdiano esige una declamazione naturale, sostenuta da un respiro fluido e da una dizione poetica precisa, ma allo stesso tempo capace di modulazioni dinamiche, di messa di voce e di gesti espressivi sempre subordinati al significato del testo. Ogni sfumatura nasce dall’intenzione della parola e ne amplifica la forza emotiva, restituendo al canto la sua dimensione più autentica e umana.
In definitiva, l’idea che il cantante debba "cantare sul fiato", modulare la voce senza fratture artificiali, e calibrare tempi non rigidamente meccanici ma adattati alla metrica poetica - elementi che oggi chiamiamo prassi filologica-esecutiva - rispecchiano di fatto gli insegnamenti della grande Scuola Italiana di canto rinascimentale/barocco, e trovano eco nelle moderne riflessioni sulla prassi storica. Nel concetto di sprezzatura, intesa come una più modellabile libertà ritmica e fonica al servizio del contenuto poetico, sta un’impronta ancora viva nella prassi strumentale e vocale rinascimentale, che Monteverdi seppe assumere e trasformare con straordinaria acutezza.
Eppure, anche oggi l’eredità monteverdiana continua a porre interrogativi su fino a che punto le edizioni critiche che oggi consultiamo ne restituiscono la voce originale e quanto le scelte di trascrizione, notazione moderna e pratiche d’orchestra storicamente informate riescono ad avvicinarsi all’intenzione fonico-semantica del compositore. Progetti recenti come l’Edizione Nazionale Monteverdi mostrano chiaramente che non è sufficiente avere una partitura; serve di fatto una ricostruzione consapevole del legame fra parola, accentazione sillabica, ornamentazione, modulazione dinamica e pratica vocale storica.
Monteverdi, a ben vedere quindi, non è soltanto un compositore da riscoprire, ma un orizzonte permanente di indagine, in quanto il suo linguaggio non appartiene solo al passato. Il suo linguaggio continua a parlare al presente, oltre ogni distanza storica. La sua eredità invita cantori, editori, direttori e studiosi a interrogare il suono stesso della parola, oggi come allora, e a farlo risuonare con quella dignità espressiva che l’autore gli affidò.
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