1612 Italian Vespers: tra precisione anglosassone e colore italiano, I Fagiolini riscoprono lo sfarzo policorale tra Viadana e Gabrieli
Nel 1612, mentre Venezia piangeva Giovanni Gabrieli, maestro indiscusso della policoralità, Lodovico Grossi da Viadana pubblicava una raccolta di Vespri a quattro cori che segnava il passaggio tra Rinascimento maturo e Barocco nascente. Con 1612 Italian Vespers (CORO, 2025), Robert Hollingworth e I Fagiolini riportano in vita questo snodo cruciale, unendo rigore filologico e ambizione spettacolare. L’album, parte della serie Colossal Baroque, si impone come un documento sonoro irrinunciabile, restituendo opere inedite e ricostruzioni audaci.
In questa registrazione del 2012, precedentemente pubblicata da Decca, ed ora riproposta dall'etichetta CORO, Robert Hollingworth guida il suo celebre ensemble, I Fagiolini, in un viaggio alla scoperta di incredibili opere perdute tra Rinascimento maturo e primo Barocco.
Il 1612 segna un doppio evento: la morte di Giovanni Gabrieli, maestro del "Barocco massiccio", genio indiscusso della policoralità veneziana, e la pubblicazione della moderna raccolta di Vespri a quattro cori di Lodovico Grossi da Viadana.
La registrazione de I Fagiolini rimane l’unica versione esistente di questi spettacolari Vespri, nonché del senza pari Magnificat di Gabrieli per sette cori - un lavoro metodicamente studiato e ricostruito da Hugh Keyte - che evoca atmosfere militari con tanto di fanfare e spari di cannone.
Il programma ricostruisce i Secondi Vespri per la Festa del Santo Rosario, istituita dopo la vittoria di Lepanto (1571). Come spiega il libretto, Hollingworth attinge a fonti primarie: il Vespro della Beata Vergine di Viadana (1612, Archivio Capitolare di Fano) e il Magnificat di Gabrieli, ricostruito da Hugh Keyte partendo dai manoscritti della Biblioteca Marciana di Venezia (Cod. It. IV, 343). A questi si aggiungono contributi di Monteverdi, Palestrina e Andrea Gabrieli, in un mosaico che alterna salmi, antifone gregoriane e mottetti.
Viadana, oggi poco eseguito, fu un pioniere del basso continuo e dello stile concertato. I suoi salmi, come il Laetatus sum (traccia 6) e il Nisi Dominus (traccia 8), giocano sul contrasto tra favoriti (solisti virtuosi) e coro a cappella, secondo quanto descritto nel trattato Salmi a quattro chori (1612). Come nota il musicologo italiano Lorenzo Bianconi, Viadana «anticipa Monteverdi nel trattamento espressivo del testo, ma con un lessico più controllato».
L’apice è O dulcissima Maria (traccia 7), mottetto per soprano, liuto e organo: un esempio di stile recitativo sacro, dove la voce di Julia Doyle sfiora un misticismo caravaggesco, sospeso tra teatralità e preghiera privata.
Il Magnificat a 7 cori di Gabrieli (traccia 14) è il fulcro dell’album. Keyte, basandosi su frammenti del Sacrae Symphoniae (1597), ha ricostruito parti perdute integrando trombe, tromboni e persino colpi di cannone, come documentato nelle cronache delle feste marciane. Il risultato è un’architettura sonora maestosa, dove i cori spezzati (disposti in eco tra navata e logge) evocano lo sfarzo della Serenissima. Non manca una punta di provocazione: l’inserto di un gong, assente nelle fonti ma citato da Marin Mersenne nel Traité de l’harmonie (1636) come «strumento di meraviglia», trasforma la liturgia in un’esperienza quasi operistica.
Tra le sorprese spiccano il Salve Regina di Monteverdi (già nel Selva morale, 1641) e l’Ave Maris Stella in versione polifonica di Francesco Soriano (1611), esempio di falsobordone elaborato. L’Ab aeterno ordinata sum (traccia 15), sempre di Monteverdi, dimostra come il compositore cremonese fondesse madrigalismo e sacralità, con un pathos che Viadana non osava sfiorare.
Hollingworth dirige con un approccio che unisce la meticolosità della scuola anglosassone (i passaggi contrappuntistici sono nitidissimi) a una gestualità quasi mediterranea. Gli ottoni del His Majestys Sagbutts & Cornetts brillano nelle fanfare, mentre il coro mantiene un timbro morbido, lontano dalle asprezze “filologiche” di certa scuola italiana. Da segnalare i favoriti, tra cui il tenore Nicholas Mulroy nel Benedictus Dominus di Andrea Gabrieli (traccia 5), che si dipana in fioriture con agilità da madrigalista.
Qualche sbavatura si nota nei salmi di Viadana, dove il contrasto tra cori rischia di appiattirsi in dinamiche prevedibili. Il rischio, come osservato da Ennio Cominetti nel saggio Viadana e la nascita del Barocco, è che «la struttura a blocchi sostituisca il dialogo». Ma è nel Magnificat che I Fagiolini trovano la loro dimensione ideale, trasformando la complessità in energia pura.
Questo disco non è solo una summa di pratiche esecutive ma un viaggio nella mentalità sonora del primo Seicento, tra guerre, devozione e teatro sacro. Se Viadana resta un innovatore di nicchia, Gabrieli esplode in tutta la sua grandiosità.
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