L’armonia del volgare: la “questione della lingua” nel Cinquecento tra retorica, musica e identità culturale
Il Cinquecento rappresenta per la cultura italiana un secolo di straordinaria complessità e fermento, segnato da una profonda riflessione sulla lingua, il suo uso e il suo prestigio. La cosiddetta questione della lingua non fu soltanto una disputa di carattere filologico o stilistico, ma un nodo cruciale nella definizione dell’identità culturale dell’Italia moderna, capace di coinvolgere letteratura, filosofia, retorica, politica e persino musica.
Il Cinquecento italiano è spesso celebrato come il secolo dell'arte e della cultura rinascimentale, ma dietro le pennellate di Leonardo e i versi di Ariosto si celano vivaci dispute intellettuali che plasmeranno il volto della nostra lingua. La cosiddetta questione della lingua non fu solo una battaglia accademica tra grammatici e poeti: fu un confronto tra visioni del mondo, estetiche e politiche, dove la parola si intrecciava con il suono e la musica si faceva portavoce di un’idea di armonia tanto letteraria quanto linguistica. In questo contesto, la lingua volgare si afferma come strumento di espressione letteraria e di costruzione dell’“italianità”, mentre le sue caratteristiche foniche, ritmiche e armoniche diventano oggetto di studio e speculazione teorica.
Già alla fine del Quattrocento, il volgare aveva acquisito dignità letteraria, come dimostra la Raccolta aragonese inviata da Lorenzo il Magnifico a Federico d’Aragona nel 1477, accompagnata da una lettera attribuita a Poliziano. In questa antologia si ricostruiva un canone poetico volgare a partire da Guittone d’Arezzo fino a Dante e Petrarca, con il riconoscimento implicito della piena maturità del fiorentino.
Con l’inizio del secolo successivo, il volgare divenne oggetto di riflessione teorica sempre più articolata. La svolta si ebbe nel 1525 con la pubblicazione delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, opera che avrebbe segnato profondamente la storia linguistica italiana, non solo per l’elezione di modelli canonici – Petrarca per la poesia, Boccaccio per la prosa – ma per la sua impostazione retorica e armonica, che privilegiava la struttura sonora e ritmica del testo come chiave della sua efficacia espressiva.
Nel secondo libro delle Prose, Bembo individua nella gravitas e nella piacevolezza le due qualità principali della scrittura, effetti che dipendono da elementi come il suono, il numero (ritmo) e la variazione. Tale impostazione, fortemente debitrice alla retorica classica, recupera concetti platonico-aristotelici filtrati attraverso l’Umanesimo, e si fonda su un’idea di armonia del discorso che va oltre l’aspetto semantico.
In tal senso, è fondamentale la relazione non esplicitata ma evidente con il De compositione verborum di Dionigi di Alicarnasso, in cui la disposizione fonica delle lettere è analizzata secondo criteri di eufonia e di effetto affettivo, in una prospettiva che potremmo definire musicologica. La riscoperta dell’influenza dionisiana si deve a Girolamo Mei, che nel suo inedito Della compositura delle parole mostra come tali principi venissero ripresi nella Firenze medicea in funzione di un’ideale continuità tra parola, suono e affetto. Tale linea teorica avrebbe influenzato anche la Camerata Fiorentina e le prime formulazioni dell’espressione musicale degli affetti, preludio alla nascita del melodramma.
Bembo, attraverso l’analisi del ritmo, dell’armonia tra vocali e consonanti, della posizione degli accenti e della lunghezza delle sillabe, assegna alla parola scritta una forza analoga a quella della parola musicata. La retorica verbale si fa retorica musicale, e la letteratura si apre all’influsso di categorie tipiche dell’arte dei suoni. Autori successivi come Bartolomeo Cavalcanti (Retorica) e Giulio Cortese (Avertimenti nel poetare) ripresero e ampliarono tali riflessioni, fino a proporre corrispondenze sistematiche tra i fonemi e le emozioni evocate: lettere gravi per la solennità, occlusive labiali per il pianto, consonanti dure per la violenza e la guerra. La funzione affettiva del significante – non del significato – viene così elaborata con criteri simili a quelli che, di lì a poco, guideranno la teoria degli affetti nella musica.
Alla proposta normativa di Bembo si opposero posizioni che privilegiavano un uso più duttile e vivo della lingua, basato sull’uso cortigiano e sull’evoluzione naturale del parlare. Già nel trattato perduto di Vincenzo Calmeta, testimoniato da Lodovico Castelvetro, si affacciava l’idea che la lingua delle corti – in particolare quella romana – potesse costituire un modello nobile e composito, affinato dal dialogo tra regioni diverse.
Baldassare Castiglione, nel Libro del Cortegiano (1528), recuperava e rilanciava questa visione, opponendosi implicitamente all’arcaismo bembiano. Per Castiglione, la lingua doveva riflettere l’uso colto ma naturale dei parlanti: uno stile elegante, ma non artificiosamente imitativo, fondato sull’arte che non si mostra, cioè la sprezzatura. L’ideale era quello di una lingua viva, capace di adattarsi al contesto e di evolversi come ogni fenomeno culturale.
Anche Gian Giorgio Trissino si oppose al purismo bembiano, sostenendo – in seguito alla riscoperta del De vulgari eloquentia di Dante – l’idea di una lingua illustre e comune, fondata su un amalgama delle parlate italiane più colte. La sua lettura dell’opera dantesca, sebbene erroneamente interpretata in senso linguistico e non stilistico, gli permise di elaborare un’idea inclusiva e “nazionale” della lingua. Trissino giunse persino a proporre una riforma ortografica con l’introduzione di lettere greche per distinguere i suoni vocalici, nel tentativo di restituire al volgare la precisione fonetica del greco e del latino.
A tale posizione si oppose Niccolò Machiavelli, che, pur leggendo il De vulgari eloquentia, rifiutava l’ipotesi di una lingua comune avulsa da radici locali, e difendeva il fiorentino come unica lingua letteraria dotata di coerenza, storia e vitalità autentica. Per Machiavelli, anche Dante – pur sostenendo un’ideale lingua “curiale” – scriveva in realtà in un fiorentino vero e proprio, con tratti idiomatici riconoscibili.
Negli anni successivi alla pubblicazione delle Prose e del Cortegiano, la riflessione sulla lingua assunse un carattere più sistematico. Le Accademie – in particolare l’Accademia Fiorentina – si fecero promotrici di grammatiche, trattati e regolamenti linguistici. Le Regole della lingua fiorentina (1552) di Pier Francesco Giambullari rappresentano uno dei primi tentativi organici di codificazione grammaticale del toscano, comprendendo anche riflessioni su retorica e stile. Tuttavia, il suo tentativo di introdurre terminologie tecniche mutuate dal greco suscitò critiche da parte di studiosi come Vincenzio Borghini, che vi ravvisava una violazione dell’armonia naturale del toscano.
L’attenzione agli aspetti musicali del linguaggio non fu solo retorica. Essa trovò applicazione concreta nella prassi musicale del tempo. Benedetto Varchi, nel dialogo L’Ercolano, distingue fra le caratteristiche del latino (basato su quantità sillabiche) e quelle del volgare (fondato su accenti tonici), sostenendo che la bellezza dell’italiano risiede nella sua armonia prosodica. Tale riflessione si innesta perfettamente nel contesto della nascita del madrigale cinquecentesco, genere musicale che prediligeva testi di alto valore letterario e li metteva in musica con grande attenzione al rapporto tra parola e suono; concezioni queste che aprirono di fatto la strada a una musica più sensibile alla lingua, che trovò proprio nel madrigale la sua più alta espressione: una forma in cui il testo poetico (spesso petrarchesco) veniva trattato con raffinatissima cura sonora, inseguendo i sentimenti e gli affetti contenuti nella parola.
Non si trattava più di mettere in musica la metrica, come nella frottola, ma di aderire al significante, di “esprimere” il testo attraverso scelte melodiche e armoniche che ne rispecchiassero i toni, le emozioni, la retorica. La lingua, nella sua espressività fonica, diventava dunque strumento privilegiato per la musica stessa.
Le riflessioni sul suono e la forma della parola scritta non mancarono di influenzare la produzione musicale. Compositori come Adrian Willaert, Jacques Arcadelt e Cipriano de Rore cercarono nella musica una forma di esegesi sonora del testo poetico: la melodia diventava il veicolo espressivo degli affetti contenuti nelle parole, in un’ideale continuità con le teorie linguistiche di Bembo e le osservazioni di Dionigi. Questo stretto legame fra metrica, sintassi e ritmo musicale costituì uno dei principali motori dell’evoluzione musicale del tardo Rinascimento e anticipò molte delle istanze del teatro musicale barocco.
La questione della lingua nel Cinquecento fu molto più che una disputa tra grammatici: fu una riflessione complessiva sulla forma, il suono e la funzione del linguaggio in una cultura che cercava la propria identità. In un’Italia politicamente frammentata, la lingua divenne terreno simbolico di unità e di confronto. Le teorie linguistiche influenzarono profondamente la poesia, la prosa e la musica, e trovarono nella sonorità e nella struttura della parola scritta una via per coniugare espressione e armonia. L’ideale rinascimentale di una perfetta corrispondenza tra forma e contenuto, tra suono e senso, si incarnava nella lingua: un’arte delle lettere che parlava con voce musicale.
Fonti principali: Pietro Bembo, Prose della volgar lingua; Baldassare Castiglione, Il libro del Cortegiano; Girolamo Mei, Della compositura delle parole; Benedetto Varchi, L’Ercolano; Giulio Cortese, Avertimenti nel poetare; Antonio Minturno, L’arte poetica; Gian Giorgio Trissino, Dubbi grammaticali.
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