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La geografia del vino italiano: tra sottozone e identità regionale, si allarga il concetto di terroir. I casi studio Toscana, Sicilia e la svolta del Piemonte

Il panorama vitivinicolo italiano sta vivendo una trasformazione strutturale, segnata da un'accresciuta attenzione alla delimitazione territoriale, in linea con il modello francese dei cru. Se la Francia ha storicamente codificato l'importanza del terroir attraverso le denominazioni di vigneto, l'Italia risponde oggi con una frammentazione geografica sempre più dettagliata, bilanciando tradizione e strategia di mercato. Questo processo, però, non è privo di sfide, soprattutto nella dialettica tra specificità e accessibilità. 

Il percorso italiano verso le micro-denominazioni affonda le radici nel Piemonte. Come documentato dai consorzi di tutela, nel 2007 il Barbaresco introdusse le Menzioni Geografiche Aggiuntive (MGA), seguite dal Barolo nel 2010. Questi strumenti, definiti "cru all’italiana", hanno consentito di identificare vigneti singoli, elevandone il prestigio (Consorzio Barolo Barbaresco, 2010). Un modello replicato successivamente dal Soave (33 MGA), dal Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore (43 Rive) e dalla Franciacorta, che mira a delineare 134 sottozone in un'area dieci volte più ridotta della Champagne (Franciacorta Consorzio, 2023).

Tra i più recenti, il caso del Vino Nobile di Montepulciano, con le nuove sottozone delle "Pievi". Nel novembre 2024, il Consorzio del Vino Nobile di Montepulciano ha segnato di fatto una tappa significativa nel percorso di valorizzazione del terroir italiano, presentando ufficialmente 12 nuove sottozone, denominate appunto “Pievi”, ispirate alle antiche parrocchie medievali che storicamente caratterizzavano il territorio. Questo intervento, come riportato nel documento “Progetto Pievi: Identità e Territorio” (Consorzio del Vino Nobile, 2024), mira a coniugare eredità culturale e precisione enologica, suddividendo l’area di produzione in unità geografiche omogenee, ciascuna legata a specifiche caratteristiche pedoclimatiche e tradizioni viticole.  

Le Pievi, il cui nome come dicevo evoca le circoscrizioni ecclesiastiche risalenti al XII-XIII secolo, riflettono una mappatura dettagliata dei versanti e dei suoli di Montepulciano, con l’obiettivo di esaltare la diversità dei micro-territori. Come sottolineato dal presidente del Consorzio, “il legame con la storia locale non è un semplice esercizio di marketing, ma un modo per radicare il vino nella sua identità più autentica” (Comunicato Stampa, novembre 2024). L’iniziativa si inserisce in un contesto più ampio: dopo l’introduzione della menzione “Toscana” in etichetta nel 2021 – che aveva già generato un incremento del 20% nelle vendite – la definizione delle sottozone rappresenta un ulteriore passo verso la segmentazione qualitativa, sul modello delle Menzioni Geografiche Aggiuntive (MGA) piemontesi.  

Tuttavia, il progetto non trascura le esigenze del mercato globale. Pur puntando sulla specificità, le etichette manterranno la doppia menzione “Toscana” e “Pievi”, seguendo l’esempio della Borgogna, dove il riferimento regionale (“Bourgogne”) coesiste con i nomi dei cru. Una scelta strategica, come evidenziato da uno studio dell’Università di Siena (2023), che riconosce nel binomio “macro-area + sottozona” il compromesso ideale per catturare sia i collezionisti attenti al dettaglio sia i consumatori meno esperti, alla ricerca di un’identità riconoscibile. 

L’introduzione delle Pievi conferma la tendenza italiana a ibridare modelli internazionali (come il sistema dei cru) con elementi storici locali, bilanciando innovazione e tradizione. Un approccio che, se da un lato arricchisce l’offerta enologica, dall’altro solleva interrogativi sulla sostenibilità di una frammentazione sempre più spinta. La sfida, come dimostra Montepulciano, sarà mantenere coerenza tra narrativa del territorio e chiarezza comunicativa.

Come accennavo, l’ispirazione borgognona è evidente. Infatti, come osservato da uno studio del Bureau Interprofessionnel des Vins de Bourgogne (BIVB, 2002), la complessità delle denominazioni rischiava di alienare i consumatori occasionali. La soluzione fu l’introduzione del marchio regionale obbligatorio ("Vin de Bourgogne"), che garantì riconoscibilità senza sacrificare l’identità dei cru. Un equilibrio che l’Italia sta oggi reinterpretando, come dimostrano i recenti sviluppi proprio in Toscana ma analogamente anche la Sicilia che utilizza un’etichettatura duale, unendo il nome regionale a 10 sottozone, dall’Etna a Eloro, per coniugare notorietà e specificità.  

Il Piemonte invece, cuore pulsante del vino italiano, ha compiuto un passo decisivo con l’introduzione della Menzione Geografica Allargata: dal 2024, tutte le bottiglie potranno esibire il toponimo “Piemonte”, superando la frammentazione tra denominazioni blasonate (Barolo) e di nicchia (Freisa di Chieri). Come sottolineato da Piemonte Land of Wine (2023), l’obiettivo è valorizzare i vitigni minori, spesso più accessibili ma ugualmente rappresentativi del terroir.

La proliferazione di sottozone, se da un lato esalta la diversità, dall’altro rischia di disorientare. Barolo e Barbaresco contano 240 MGA, un numero che mette alla prova anche gli appassionati. La lezione della Borgogna suggerisce che l’ancoraggio a un’identità regionale possa mitigare questo rischio. L’Italia sembra averlo compreso: l’etichetta non è più solo un codice per esperti, ma uno strumento di mediazione culturale.

Il caso italiano dimostra come la valorizzazione del terroir non debba necessariamente contrapporsi alla logica di mercato. L’integrazione di menzioni regionali accanto alle sottozone, come nel caso di “Toscana” o “Piemonte”, riflette una strategia consapevole: preservare l’unicità dei vini senza relegarli a una nicchia elitaria. In un’epoca in cui la trasparenza e la tracciabilità sono valori cardinali, l’etichetta diventa così un mezzo necessario a collegare il vigneto Italia con il mondo.  

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