DI CIBO E DINTORNI: L’UNIVERSITÀ DEI PIZZICAROLI E I SUOI STATUTI
Targa marmorea dell'Università dei Pizzicaroli all'interno della chiesa di S.Maria dell'Orto. Una delle tante corporazioni associative di arti e mestieri che a Roma erano chiamate "Università"
0.Premessa
Il documento inedito preso in esame in questa sede è la
riproduzione datata 1722 di un testo del
1568 trascritto a mano su carta pergamenacea, con la calligrafia detta “italica
imitativa”, dal senese Michele Angelo Poggini[1]. Questo
documento, contenuto in un registro di cm.43x29 e rilegato in cuoio marocchino
rosso e oro con laccioli di stoffa per chiusura, è formato da 112 carte tutte
vergate sul recto (ad eccezione della 104 interamente bianca) e tutte numerate
progressivamente in alto con cifre arabe. Riporta gli Statuti (alle cc.1-32),
le sentenze di riconoscimento delle autorità (alle cc.33-105) e gli indici (alle
cc.105-112) di quell’associazione corporativa detta Università dei Pizzicaroli
che era (ed è) affiliata all’ Arciconfraternita di S.Maria dell’Orto con sede a Trastevere in Roma, presso la chiesa omonima.
Questa riproduzione settecentesca, della quale
esiste presso l’Archivio Storico Capitolino (con la sigla ASC, Cam., Cap.,
cred. XI, t. 48) anche una versione del 1736, è ormai l’unico riferimento non
essendo più reperibile l’originale cinquecentesco ed è gelosamente conservata
presso l’archivio della citata Arciconfraternita[2]. Che la copia del 1722
sia la fedele trascrizione dell’originale,
può essere provato dalle tante abbreviature presenti (alcune
delle quali non più in uso nel diciottesimo secolo) e dalle numerose
oscillazioni grafiche per le quali si potrebbe
anche ipotizzare un intervento di revisione ortografica del copista
settecentesco tendente a normalizzare la resa di alcuni suoni per l’epoca già
in parte avvenuta[3]. Un’ ulteriore conferma verrebbe poi dalle
asserzioni di due studiosi che a vario titolo hanno avuto l’occasione di visionare
e citare il testo degli Statuti: il lessicografo Carlo Bascetta che nel 1965[4] si è
occupato del gergo dei “norcini” e lo storico di tradizioni popolari Antonio
Martini che nel 1965, per l’editore Cappelli di Bologna, ha pubblicato il saggio Arti
Mestieri e Fede nella Roma dei
Papi. Del resto, lo stesso Ernst nel
1966, presentando un ricettario romanesco del Quattrocento, aveva sostenuto che
la maggior parte dei testi d’epoca hanno “il difetto” di non esserci giunti
negli originali e che pertanto la loro edizione critica si basa su copie
notevolmente posteriori all’autografo[5].
1.Struttura del documento
Come già detto, le carte 1-32 presentano in
65 capitoli il testo degli Statuti del
1568, cioè l’atto costitutivo di una delle tante corporazioni associative di
arti e mestieri che a Roma erano chiamate “Università” (e “matricole” erano i
nuovi iscritti). Tali associazioni (altrimenti dette Collegio, Compagnia,
Consolato,Congregazione, Sodalizio, Unione) erano laiche e avevano
una
loro
gerarchia composta da persone particolarmente
preparate e degne, elette mediante sorteggio, il cui numero variava da
università ad università e che venivano
rinnovate nelle cariche ogni sei mesi: nei
nostri Statuti, per esempio, al cap.I è stabilito che «ci debbiano essere
l’infrascritti offiziali, cioè un Camerlengo, e Consolo, Tredici Consiglieri,
Dui Deputati, e Dui Sindici».
Queste corporazioni, già presenti in epoca
medievale, si erano sviluppate notevolmente in Italia nei secc.XVI-XVII,
riunendo chi esercitava la stessa arte o lo stesso mestiere al fine di
perseguire gli interessi comuni. Ogni università stilava i propri Statuti che
presentavano le regole con le quali si precisavano gli scopi e l’organizzazione
della corporazione, si chiariva l’essenza stessa dell’arte per porre limiti e
stabilire gli aventi diritto all’ammissione e si cautelavano i soci-lavoratori
dal punto di vista “sindacale” (si direbbe oggi). La cura degli estensori degli
Statuti era tanto meticolosa da arrivare perfino a stabilire quali erano le
mercanzie da vendere per non sconfinare nell’attività di altre università. Per
esempio, ai pizzicaroli era
consentito vendere svariatissime merci (se avessero effettivamente venduto
nelle loro botteghe tutto quello previsto avrebbero gestito dei veri e propri
supermercati di moderna concezione): carne de porcho, ventrescha, lardo, strutto,
songgia, soppressate, salcizoni, lingue de
porcho e de buffala, caso, provature, oua,
buturro, recotte, oglio, candele, sapone de tutte le sorte, alice, pesse
salamone, anguille, ceffali,ostreghe, cauiale,arenghe,bottarghe, pesse, salumi,
mosto cotto,acceto, mele,
semolella, maccharoni e vermicelli, legumi, orzo, fave, grano per i polli e pizzoni,
sporte, scoppe e salina (c.19). Oltre a
queste merci, era stabilito che i pizzicaroli
potessero vendere «senza subiectione alcuna» anche: frutti secchi, robbe
d’horto ouer hortaglie, merciaria, cioè filo, spago, stringhe, agucchie, et
spillette d’ogni sorte, amandole secche, olive, cappari, uue secche ouer vue
passe, fichi secchi, prungha, agli, cipolle, scalogne, cogozze, cetrioli, meloni
(c.20).
Alle università (con scopi
prevalentemente economico-professionali) si erano affiancate ben presto le
confraternite (unioni di fedeli presenti
già da tempo sul territorio con
scopi caritatevoli e religiosi) che avevano spesso sede
presso le stesse chiese delle corporazioni e che finirono con l’assisterne spiritualmente
gli associati. Le confraternite, quando riuscivano ad aggregare tanti sodalizi corporativi
venivano elette al grado di Arciconfraternite, come nel caso di S.Maria dell’Orto
che, nata nel 1492 da un iniziale raggruppamento di fedeli intorno ad una
“Madonnella” sita su una sponda del Tevere coltivata a orti e vigne, era
riuscita a riunire ben 13 università: dei Fruttaroli e Limonari, dei Mercanti e
Sensali di Ripa, dei Molinari, degli Ortolani, dei Pizzicaroli, dei Pollaroli,
degli Scarpinelli [ciabattini], dei Vermicellari o Maccharonari, dei Vignaroli
e quelle dei Garzoni dei Molinari, dei
Vermicellari, dei Pizzicaroli, degli Ortolani.
L’Università dei Pizzicaroli è nata, quindi,
con la compilazione nel 1568 degli Statuti, anche se il gruppo omogeneo e ben
compatto (il cui ceppo originario proveniva dalle zone di Norcia, Cascia e
Preci in Umbria) era presente ed attivo a Roma fin dal 1489.
La struttura degli Statuti dei Pizzicaroli
ha seguito lo schema tradizionale che vedeva:
a)
il proemio, cioè l’invocazione, anzi
la professione di fede, essendo redatti tali atti in nome di Dio Redentore e ad
onore di Maria Vergine. La formula “tipo” rimase quasi sempre identica anche
quando si passò dal latino per i testi più antichi al volgare per i più
recenti: si fece solo più povera e scarna nel linguaggio. Il latino rimase in
molte espressioni appartenenti all’ormai codificato formulario del linguaggio
giuridico, di quel particolare linguaggio giuridico che è riscontrabile in tutti gli Statuti. Il nostro testo recita: «A Laude,Onore, e
Gloria dell’Onnipotente DIO REDENTOR Nostro e della Sva Gloriosissima Madre
VERGINE MARIA nostra Auuocata, la quale insieme con tutta la Celestial Corte
sempre sia in adiutorio nostro, e di tutti gl’Huomini che al presente sono, e
che per l’auuenire saranno dell’Uniuersità & Arte de’Pizzicaroli dell’Alma
Città di Roma». Poi proseguono «Questi sono gli Statuti, Ordinazioni e Capitoli
della predetta Vniuersità et Arte de’ Pizzicaroli fatti e nuouamente castigati
e corretti dall’infrascritti moderni Camerlengo, Consolo et altri Officiali
dell’Arte et Vniuersità predetta»;
b) i capitoli, con gli scopi, l’organizzazione della corporazione, la
gerarchia, le funzioni, le disposizioni e norme riguardanti l’attività
economica e i compiti
professionali. Talvolta in alcuni
Statuti emergono anche le prescrizioni confraternali con gli obblighi di «esercitare lo spirito dei confratelli nei
precetti e nei consigli della nostra Religione […] e richiamarli […] al pascolo
salutare della preghiera.»[6] ;
c) le trascrizioni degli atti di
conferma in latino emanati dalle autorità
e le sottoscrizioni notarili;
d) le tavole
degli indici.
Gli Statuti, quindi, come tipologia di testi
possono attrarre la nostra attenzione sia perché a rileggerli si compie un atto
di venerabile memoria verso i nostri predecessori (e non si può comprendere il
presente senza vagliare il passato), sia perché
si sono rivelati un campo di indagine proficuo ed interessante non solo per lo storico o per il linguista,
ma per chiunque voglia conoscere, attraverso la “microstoria”, i costumi, le
tradizioni, la lingua di una comunità e di un’epoca. Ma soprattutto, testi di questo tipo (cioè
tutte quelle scritture di “natura pratica” dei secoli passati) possono offrire
la possibilità di ricostruire il rapporto tra la storia delle varietà linguistiche e le rispettive
condizioni storico-sociali dei parlanti e nel contempo possono servire a
ricostruire una gamma di usi e processi di standardizzazione all’interno della storia
linguistica italiana: per esempio, possono fornire un contributo
alla storia della formazione della
norma grafica e possono far intravedere
un rapporto tra resa grafica e realtà fonetica,
consentendo altresì di individuare tratti di pronuncia soggiacente alle
incertezze grafiche.
2.Esame esterno
del documento
Dall’osservazione esterna del documento, è
emerso quanto segue:
a) una
sola data presente: quella del 1567 riferita alla prima elezione dei
Camerlengo, Console e Consiglieri. Altre date compaiono negli atti burocratici di
accompagnamento e si riferiscono alla registrazione notarile del 16 maggio 1568
ad opera del notaio Mino de Rubeis e alle conferme della Camera Apostolica del
13 ottobre 1568 e del 6 novembre 1568;
b) i nomi dei diciannove estensori: per alcuni
dei quali sono riportati nome e cognome,
città di provenienza e ubicazione dell’esercizio commerciale: per es.Gio:Pietro
Rondi da Bressa [Brescia] Pizzicarolo alla Scrofa [via di Roma], Jacobo de Nicolosij Pizzicarolo in Piazza
di Sciarra; per altri, invece, si
riporta solo il nome e l’ubicazione della bottega: per es. Horazio Pizzicarolo a Ripetta, Lorenzo Pizzicarolo alla Rotonda [il
Panteon], Battista da Bolsano [forse Bolzano in provincia di Vicenza<*BAUNTIANUM
o Bolźano in AltoAdige< *BAUNDIANUM, cfr. in proposito il Dizionario di Toponomastica. Storia e
significato dei nomi geografici italiani, Torino, Garzanti, 1996, p.85] Pizzicarolo in Campo di Fiori;
c) alla carta 30, un richiamo, evidenziato
con la lettera F, che rimanda a tre righe più sotto: segno che il copista
settecentesco aveva saltato una parte del testo e l’aveva inserita successivamente;
d) correzioni ortogratiche: candelotaro modificato in candellottaro, chiaui in chiaue ‘chiavi’,
due deputati in dui deputati, de più in di più,
fiche secche corretto in fichi secchi, singole casi in singoli casi,
vinticinque in venticinque.
Da
segnalare, infine, la presenza di locuzioni latine (ipso facto / ipso fatto,
tactis scriptis, manu regia, in scriptis, ipso iure,
pro tempore, pro rata), di connettivi (etiam e item ) per i quali Maurizio Trifone parla di “briciole di latinismo”[7] e la
presenza di una notevole quantità di abbreviature trascritte sia con il
classico titulus (come ad es. sopti ‘soprascritti’,
pnti. ‘presenti’, capli ‘capitoli’), sia con un punto/due
punti e vocale/sillaba finale in carattere più piccolo (come ad es. pred.ti ‘predetti’, cap.o ‘capitolo’, sig.ri ‘signori’ e cap:o ‘capitolo’,
p:ta ‘predetta’,
sig:ri ‘signori’). Interessanti le abbreviazione
di offo per ‘ufficio’ e Ms: per
‘Messere’.
3. Esame
interno del documento
Da una prima veloce osservazione linguistica
del documento a vari livelli, si segnalano in questa sede solo alcuni fenomeni interessanti che rispecchiano pienamente il periodo e
l’area di appartenenza del testo, riservandosi la scrivente ulteriori approfondimenti in futuro.
1) Fra gli usi conservativi sono emersi:
a)il
mantenimento del nesso tj come in licentia, congregatione, mercantia,
presentia, contrauentione e in altri numerosissimi esempi accanto alla resa
con z dell’affricata dentale sorda (espressa spesso intensa in posizione
intervocalica come in palazzo, pizzicaroli, prezzo[8]) del tipo Horazio, ordinazione, ordinanza e in
altri esempi: questo potrebbe far supporre un tentativo di normalizzazione; b)il mantenimento della h etimologica sia per il verbo hauere (presenza costante in tutti i modi e tempi) e sia per i
tipi homo, huomini, homini, hospitale, honore, dishonore, per hoc,
perho (ma anche però), hora, humanamente; c)il mantenimento del dittongo latino AU in audientia, clausola, fraude,
fraudato, lauda; d)l’uso della lettera u per la v:V è usata generalmente per la maiuscola sia vocalica che consonantica
come in Vergine,Vniuersità,Volume,
mentre la u per la minuscola sia
vocalica che consonantica come in uue
‘uve’, uolta, uoto, uita, ouer, chiaue, hauere,
uue e in molte altre occorrenze. Sono però presenti anche oscillazioni del
tipo vue/uue ‘uve’, venticinque/uenticinque, voce/uoce, vno/uno;
e)il mantenimento costante di x in proximi,
relaxare, expedita, exercitare, executione, extratta, taxe e in molte
altre occorrenze accanto a forme come essercitio,
essercitare, essercitarà, tassa, tasse, tassare. Interessante è il caso di Bressa ‘Brescia’ <BRIXIA[9]; f)la conservazione dei nessi ct, cl,
mn e nd come ad es. in facto, subtracta,
affectione, sclamare, declaratione, condemnare, condemnato e in altre occorrenze; g)il mantenimento di ar intertonica
e postonica in tutti i futuri della I coniugazione presenti nel testo e nella forma maccharoni;
anche nei suffissi in -ARIA
come merciaria
e pizzicaria;h)il mantenimento dei prefissi sub,
ad, ab, in, ob, re, de, con come negli esempi seguenti: subtratta, aduocata, absentia, instrumenti, obtenere, receputa, recorso, deffendere, constretti, anche
in altre occorrenze;i)il mantenimento
di j/i sia davanti a vocale che
davanti a consonante in Jacobo (ma
anche Giacomo), julio (ma anche giulio)[10], Juliano (anche Giuliano), judice (ma
anche iudice), justo (ma anche iusta),
jmbussolare (ma anche imbussolati), jntrare (ma anche intrare)
e in altri esempi; l)la conservazione
delle sorde in receputa, secreto, patroni, patrone (ma anche padroni, padrone), ripa, hospitale ‘ospedale’; m)il
mantenimento della e in protonia nei
monosillabi come de in de cera, de Ripa, de Ripetta, de quelle ed
altre occorrenze accanto però a di Roma,
di cera, di pena di dieci scudi ecc. e
nei latinismi originari e medievali come negotij, camerlengo (la cui variante camorlengho pure presente negli Statuti sarebbe dovuta alla labiale
precedente come ipotizza Agostini[11]). Mantenimento
della e anche in postonia: quindeci; n)il mantenimento della i protonica
in ligato ‘legato’, hospitale ‘ospedale’ e fideltà ‘fedeltà’; o)il mantenimento di u in
protonia e postonia: ufficiali/uffiziali
(ma anche officiali/offiziali), ufficio (anche officio), facultà, voluntà e matricula[12].
2) Inoltre per altre particolarità
grafiche, si segnalano:
a)frequente
uso di ch (cch) anche davanti a vocali
velari del tipo barcha (anche barca), anticha, bancho, biancha (anche bianca),
biancho, francho, ancho (anche anco),
mancho (anche manco), porcho, maccharoni,
alchuno,
alchuna (ma anche alcuna) e altre
occorrenze. Interessante
il caso di Christofaro Cremonese, uno degli estensori degli Statuti. Stessa situazione per l’ occlusiva velare
sonora resa talvolta con gh anche
davanti a vocali velari: camorlengho (ma camorlengo), camorlenghato, botigha, botegha (anche botega), bottegha, botteghari.
Si registra anche il caso ambiguo di prungha
(<lat. parlato PRUNEA<PRUNIA) dove la presenza di h potrebbe alludere ad una pronuncia
velare suffragata dalla vicinanza di oppongha,
tenghi e stringhe; b)frequente
uso di sch anche davanti a vocali
velari come ad es. ciaschuna, ciaschuno, ventrescha, ardischa
ed altre occorrenze; c) resa grafica
con ss in pesse, pesse salamone del gruppo fonetico originario sk; d) la l
palatale è resa sempre con gl(i) come
in pigliar, hortaglie, fogliame, uoglia,
foglia, consiglieri (grafia estesa anche a casi oglio e
ogliari); e)la n palatale è resa sempre con gn in
signori, ogni e altre occorrenze (eccetto
in iniuria e songgia); f)per
la resa delle consonanti scempie e doppie, si osservano numerose oscillazioni (sistematiche
per le preposizioni articolate[13]) del
tipo ragione/raggione, esercitio/essercitio,
palazo/palazzo, litigio/litiggio, ouer/ouuer,eletti/elletti,habiano/habbiano,debiano/debbiano,pecorino/peccorino,auocata/auuocata,salcicioni/salciccioni,serano/seranno/sa-
ranno; si registra la presenza di doppie per scempie ad es.in robba, scoppe ‘scope’, buffala,
ceffali, doppo, fummate, consuetto, communità, commandamenti, acceto e
viceversa scempie per doppie ad es. in acetterà,
arivata, produre, mezo, anotare e in tutte le terze persone
plurali dei futuri del tipo intrarano, farano,
uorano,
operarano,
trouerano, hauerano, serano (ad eccezione dei casi di faranno, seranno, imponeranno, entraranno). Si segnala talvolta la presenza
del titulus per indicare le doppie come in comunità,
farano, sumaria, comandar, sono ‘essi sono’. Le incertezze nella resa
grafica delle consonanti possono rappresentare un problema in cui si
intrecciano ragioni di fonetica locale, tradizioni scrittorie diversamente
consistenti e influenze etimologiche più o meno consapevolmente subite o
esibite[14]. Per commune,
doppo, essercitio si potrebbe ipotizzare una tradizione scrittoria o
modello latino; f)per gli accenti, si
registra solo quello grave con la seguente distribuzione: è sistematicamente presente
sulla congiunzione ò mentre è oscillante sulla preposizione a; è presente sempre sulle parole
apocopate dalla base latina -ATEM (come università,
facoltà, città, voluntà, quantità), su
ciò e suoi composti e su tutte le terze persone singolari del futuro
semplice ad eccezione dei casi pagara,
parera (anche parerà), piacera, spendera, riscotera e restara (anche restarà). Manca del tutto
l’accento su ne; g)uso dell’apostrofo. Questo è un settore che ha tardato a
normalizzarsi per la mancanza di distinzione tra elisione e troncamento: fatto
che regolamente si verifica nel testo. Si segnala l’apostrofo (ma numerose sono
le forme intere) con gli articoli determinativi maschili/femminili e
singolari/plurali del tipo l’arte,
l’altra, l’officio, l’altre, l’ instrumenti ma la Università ,
lo introito, li executori; con gli articoli indeterminativi del tipo un’ altro, un’altra ma un altro, uno aduocato ecc… In
particolare, le preposizioni semplici e articolate sono un settore molto ricco di scelte adottate: si passa dalle numerose
forme apostrofate del tipo del’horto (ma
anche del horto), d’essi, d’applicarsi,
del’arte (ma del arte), al’arte (ma al arte), all’inhibitione alle altrettanto
numerose forme del tipo allo camerlengo, allo
consolato, in lo detto, in le dette. Invece, sempre apostrofati sono gli
infiniti del tipo ellegger’un altro,
comprar’un libro, star’in mano, far’la carta, dar’più querela, star’ honor.
Da segnalare i seguenti casi: qual’libro,
qual’habitasse, tal’mercantia, ogn’altra appelatione, s’ habbia, alchun’ dubbio,
ad alchun’ pizzicarolo, d’pizzicaroli (per di pizzicaroli), d’Roma (per
di Roma), ouer’decreto, ouer’dove, camprator’,
venditor’, no’ (no’ si possino), co’ (co’ bona causa, co’ potestà),
a’macellari
‘ai macellari’ e de ella pena, de el officio. Si riporta, inoltre, acciò forse esempio di raddoppiamento fonosintattico (normale per l’area
romana) dal momento che sono presenti anche le forme a’ uoce, a’ ciò, a’ far, a’ lor; h) si registra, altresì, l’alternanza grafica di e/et/&: la & compare solo nel
proemio (…saranno dell’Vniuersità & Arte de…), mentre e/et presentano oscillazioni
apparentemente senza una norma precisa (e altri, e consolo, e consiglieri ma anche et consiglieri, et quanto dura, et detta cassetta, et in piena
adunanza, et un altro).
Infine, si segnalano i seguenti casi di: mancata
separazione fra parole in colitiganti ‘con litiganti’, oscillazione
tra contrafarà e contra
farà
e separazione in ne meno’nemmeno’.
3) Per particolarità morfosintattiche si segnalano:
a) casi di dittongamento in nuouamente, huomini, buona, contiene dieci, tiene, Pietro accanto a esiti non
dittongati come homini, homo, novi,
novamente, bona, bon, bone, di novo, nova, riscoterà, ova; b) anafonesi in consiglieri[15], stringhe[16] accanto a mancata anafonesi in arenghe e camerlengo/camorlengo/camorlegho[17]; c)casi di sonorizzazione del tipo ballotta
‘pallotta’, ostreghe ‘ostriche’, cogozze ‘cucuzze [zucche]’; d)esiti
del nesso -RJ: -aro/-ara/-ari/-arolo/-aroli
come nei seguenti esempi notaro, candellottaro,Catinara [Gattinara, località non ben individuata se in provincia
di Vercelli o di Pavia], botthegari,
macellari, maccharonari, limonari, molinari, pecorari, vermicellari,
candellottari, pizzicarolo, pizzicaroli, fruttaroli, vignaroli, pollaroli; -ario
come in notario e salario (forse forme dotte); -iere/ieri come in consigliere e consiglieri;
e)casi (pochi in verità) di
assimilazione del tipo fatto, detto,
predetti, subtratta; f) fenomeni
di aferesi in sclamar ‘esclamare’, songgia ‘sugna’ e vena ‘avena’
(ma mancata aferesi in amandole) e apocope nelle parole dalla
base in -ATEM del tipo quantità, voluntà, facultà, città.
Inoltre, da registrare: a) presenza di un caso di che polivalente in …dal di che li sarà consegnato il libro…; b) presenza delle forme li/gli per ‘a loro’ in li sia, obedirli, constandoli, li
paresse, li sarà consegnato e gli
sarà donato, gli possa; si osserva altresì dargline per ‘dargliene, dare a loro’; c) presenza di sua per loro in sua raggione, suo parere, sua rata, sua uoce e à suo beneplacito (ma regolarmente à loro beneplacito); d) presenza della forma promiscua dui/due; e) un caso di superlativo con avverbio intensivo più meglio.
Per le terminazioni, si segnalano:
a)l’uscita, ben conosciuta nel
romanesco, dei plurali femminili in -e del tipo
le
chiaue ‘le chiavi’
(rintracciato 4 volte, più una correzione su chiaui[18] ), le quale persone e alle quale, le parte, le
patente, le cose spettante, tutte le sorte, le dette uoce; b) l’uscita di due masch. sing. in –o:
termino ‘termine’e consolo
‘console’; c) la presenza della
doppia –ij nei plurali dei nomi in –io: negotij, compromissarij, uecchij.
Da notare in ambito verbale: le uniche
forme nel testo dell’ indicativo pres.1ª pers. plur. ordinamo
e statuimo; l’unico caso di sono ‘essi
sono’ in alternativa alla regolare forma scempia; le forme sarà/serà e saranno/seranno
presenti equamente; l’unica forma dell’indicativo futuro di ‘avere’
3ª pers. sing. è hauerà (anche
come ausiliare nel futuro anteriore del tipo hauerà fatto, hauerà comprato, hauerà prouato); i congiuntivi presenti 3ª pers. sing. e plur. habbia, debbia (32 occorrenze a fronte
dell’unica forma presente debba), debbiano/debiano/debbano,
possi (4 occorrenze a fronte delle 31 presenze di possa), possino, tenghi, paghi, vadino; regolari
sono ardischa, dicha, oppongha, faccia
e facciano, sia e siano, chiami, intendano mentre l’imperfetto
congiuntivo, 3ª pers.sing. (accanto a forme normali del tipo ricusasse, hauesse, spettasse, fosse) presenta uolessi/uolesse
per ‘volesse’, paressi per
‘paresse’ e trouasso per ‘trovasse’.
Da notare anche cassi per ‘cassati, cancellati’.
4) Lessico
Infine in ambito lessicale, si segnalano
solo alcune voci ritenute particolarmente interessanti:
Buturro,s.m.,’burro’, è voce dialettale
non solo meridionale e romanesca perché
già Sella nel suo Glossario latino
emiliano[19] lo segnala (s.v.buterius) a Modena nel 1277, mentre è attestato
in italiano fin dal sec.XIV nella variante butirro nella Bibbia
Volgarizzata e nel sec XV nelle
varianti biturro nel Burchiello [20], boturo
presente nel già citato ricettario romanesco quattrocentesco di Ernest alla
pagina 155, butiero
nel Solennissimo Vocabulista [21] e butiro
individuato a Verona già nel 1487 dal Migliorini[22]. È
stato citato come regionalismo veneto-emiliano
nella forma buttiro sempre dallo stesso Migliorini nella sua Storia
della lingua italiana[23]. Etimologicamente< latino medievale BUTYRUM<BUTŪRUM
a sua volta <gr. bóutyron (lett.‘cacio
di vacca’)[24]. Il VEI (pp.614-615 e 640) precisa che la voce si è diffusa nelle
lingue romanze in tempi e modi diversi: con l’accento greco nell’antico franc. burre (passato poi come prestito al catalano
e ai dialetti italiani); nel tipo buturo
che continua la pronuncia latina; nel
tipo emiliano butèr che, passato a molti altri dialetti settentrionali, attesta una pronuncia tardo-bizantina;
nel tipo panitaliano butiro che non
sembrerebbe diffuso dalla Toscana per il suo suffisso e che, sempre per il VEI, sarebbe voce dotta. Per Castellani [25], dal
vocabolo latino verrebbe regolarmente il franc.ant. burre da cui il toscano burro che a sua volta si
sarebbe sovrapposto alle due
forme indigene di butìro e bitùro (la seconda derivata da un
attestato butùro per dissimilazione
della prima u in i); poi, bitùro sarebbe
scomparso, mentre butìro
trasformandosi in butìrro, sarebbe
rimasto fuori Toscana fino a tempi recenti, in alternativa a burro[26]. Infine,
Migliorini sostiene, sempre alle pp 415 e 480 della sua Storia della lingua italiana, che tra le due forme lessicali burro e butirro, la prevalenza della prima sulla seconda non fu facile nonostante
l’autorevolezza di Dante verso la prima voce[27].
Ostrega, s.f.,‘ostrica’< dal lat. ŎSTREAM modellato sul plur. di ŎSTREUM, più vicino al
gr. óstreon parallelo di óstrakon
‘conchiglia, guscio di vari animali marini’ secondo le difinizioni di DELI e del DEDI [28]. Tuttavia,
per entrambi i testi rimane inspiegata la terminazione –ica in ‘ostrica’, a meno che non si ricorra ad un possibilissimo
prestito veneziano, dove òstrega, dal greco pl. óstaka, potrebbe trovare una razionale
collocazione: infatti, il DEDI la dà come
certa voce veneta. La parola, secondo Castellani,
si sarebbe diffusa dalle coste dell’alto Adriatico, dove il molluco avrebbe
trovato habitat ottimale e avrebbe soppiantato il più antico ostra (risalente sempre al lat.ŎSTREA)
di cui rimane traccia nel siciliano e nel vicentino del XVI secolo e nel tarantino moderno[29]: comunque,
Castellani documenta la voce ostrica sin
da sec XIII in Bono Giamboni e come
italianismo hostrige, ostrice nel francese del Milione di Marco Polo. La voce è citata anche alla p.142 del
capitolo III (sulla conservazione e modo di cucinare i pesci) del monumentale
trattato del 1570, intitolato Opera, del
più famoso cuoco italiano del Cinquecento Bartolomeo Scappi [30].
Pizzicarolo,s.m.,‘pizzicagnolo,salumiere,
proprietario o gestore di una
pizzicheria o salumeria o salsamenteria’,voce dialettale romanesca con la quale
si intende colui che vende salumi, formaggi e anche generi non commestibili[31]. A Roma, è detto erroneamente anche norcino perché in origine molti
esperti del settore provenivano dalla zona di Norcia. In realtà, le voci hanno
accezione diversa: infatti, a differenza del pizzicagnolo, il norcino
(voce pure regionale derivata dal nome della città umbra con il suffisso –ino) per definizione è solo colui che pratica il mestiere di macellare i maiali,
lavorarne le carni e venderle[32].
Oggi, norcineria/pizzicheria/salumeria/salsamenteria sono pressocché sinonimi,
ma se i titolari di queste attività si possono riunire sotto l’insegna generica
di “dettaglianti salumieri”, il numero dei generi venduti va oltre quello dei
commestibili. Ma a questo proposito, già
nel 1568 i nostri Statuti avevano chiarito le differenze stabilendo al cap.LXI (per
evitare le polemiche tra pizzicagnoli, norcini e macellai che pur dovevano esserci)
che i loro associati non erano tenuti a pagare le tasse all’Università dei
Macellari per l’unico macello annuale dei maiali (di competenza, invero, dei soli norcini o
macellari dei porci).
Per DISC e per il Vocabolario
della Lingua Italiana, s.v.pizzicaròlo/pizzicàgnolo[33] deriva
da pizzicare
‘essere piccante’.
Per il Chiappini (s.v. pizzicarìa
a p.109 del suo vocabolario), deriverebbe (come pizzicarìa) da pizzicata che
anticamente era la sola confezione di prodotti altrui, poi con il passar del tempo i pizzicaroli avrebbero cominciato a vendere direttamente, e non solo
a confezionare, anche altre merci (come sappiamo dagli Statuti) pur conservando
il nome originario. Anche il DELI
(p.1207, s.v. pizzicare) come il GDLI (pp.613 e 616-617 s.v. pizzicàgnolo / pizzicaiuòlo / pizzicàndolo) fanno derivare la voce
dal verbo pizzicare ‘stimolare col
proprio sapore piccante o frizzante’: il pizzicàgnolo
sarebbe perciò ‘il venditore di cibi pizzicanti, cioè piccanti’.Secondo il DEI (p.2962 s.v. pizzicàgnolo) e il VEI (p.614
s.v. pizzicagnòlo / pizzicaròlo),
però, pizzicare non solo indicherebbe
cibi piccanti ma significherebbe anche ‘un piccolo quantitativo (pizzico) di merce/alimenti che si
possono prendere stringendoli tra la punta
di due dita’.
La voce risulta largamente attestata
già dal XIII sec. nel latino medievale
della Toscana (piczkagnolus), di
Forlì nel 1359 (picigarolus), a Roma
nel 1425 (pizzigarolus / pizzicarolus),
a Orvieto nel 1334 (pizicarolus), ma varianti fonetiche si ritrovano a
Perugia nel 1296 (pizzicarello) e
successivamente 1384 (pizzicagnolo),
a Siena nel 1233 risulta una butiga del pizicaiuolo,
mentre nel XV secolo a Roma (pizzicaruolo
/ pizzicarolo) e a Firenze (pizzicagnolo)[34]. Successivamente,
si sono avute le voci salsamentario, salumaio nel 1735 e nel 1767 [35]. Solo
nel 1831 compare salumiere nell’opera edita a Milano di A.Lissoni, Aiuto allo scrivere purgato, anche se la voce salumier era già attestata nel dialetto
veneziano fin dal 1829 da G.Boerio, nel suo Dizionario
del dialetto veneziano, edito a Venezia[36]. Anche Tommaso Azzocchi riporta a p.76 del suo
vocabolario domestico del 1846 «pizzicheruolo
o pizzicagnolo non pizzicarolo. Chi vende salami, salumi,
cacio ecc.»[37].
1Tale nome è confermato da documenti
conservati presso la biblioteca dell’Arciconfraternita di S.Maria dell’Orto,
proprietaria del testo in questione.
2Si coglie l’opportunità di
ringraziare pubblicamente il Camerlengo e l’Archivista, nelle persone
del Dott. Domenico Rotella e del Sig.Bruno
Forastieri, per l’aiuto prestato nel
fornire materiali e
documenti e nel
concedere di visionare il testo.
Grafia e ortografia, Firenze, Centro Duplicazioni Offset,
1992; Ead (a
cura di),
Trattati di fonetica del Cinquecento, Firenze, Accademia
della Crusca,1992; Ead, Grafia
e ortografia: evoluzione e
codificazione, in Luca Serianni-Pietro Trifone, Storia della lingua italiana. I luoghi della
codificazione, Torino, Einaudi, 1993, pp.159 -211 e Rosario Coluccia, Notai
pugliesi, grafie e storia linguistica, in
«Studi Linguistici Italiani», XVI, 1,(1990), pp.80-96.
del Quattrocento, in
«Studi Linguistici Italiani»,VI, 2, (1966), pp.138-
175, p.138.
Maurizio Dardano -Paolo D’Achille-Claudio Giovanardi-
Antonia Mocciaro
(a cura di),Roma e il suo
territorio.Lingua e
dialetto e società, Roma, Bulzoni, 1999, pp.53-74, p.61.
[8] Cfr.Arrigo
Castellani, Saggi di linguistica e
filologia italiana e
romanza (1946-1976), II, Roma, Salerno Editrice,1980,
p.215 e
Francesco
Agostini, Il volgare perugino negli “Statuti del 1342” , in
«Studi di Filologia Italiana», XXVI, (1968), pp. 91-199, p.106.
italiana e dei suoi
dialetti, Torino,
Einaudi, 1966-68, § 288 e Paolo
D’Achille, Breve grammatica storica dell’italiano, Roma, Carocci,
2003, p.65.
quanto sostiene in proposito Acarisio in Ornella
Olivieri, I
primi
vocabolari italiani fino alla prima edizione della Crusca, in «Studi di
Filologia Italiana»,
VI, (1942), pp.64-192, p.114.
l’Alunno in Ornella
Olivieri, I primi vocabolari italiani, cit.,p.136.
cit. e
Rosario Coluccia,
Notai pugliesi, cit.
Arrigo Castellani, Saggi, cit., I, p.75 e II, p. 362.
volgare perugino,cit, p.128 e Bruno Migliorini, Storia della lingua
italiana, Firenze, Sansoni, 1983, p. 388.
«Lingua Nostra», XIII, (1952),
p.27 che retrodata
le voci rispetto
a quanto sostiene nel suo vocabolario l’Acarisio e Ignazio Baldelli, Un glossarietto fiorentino- romanesco del sec. XVII, in «Lingua Nostra», XIII, (1952),
pp.37-39, p.39.
Quattrocento.
Glossario, Modena,1953, p.19
Garzanti, 1951)
p.614; GDLI (Salvatore Battaglia, Grande Dizionario
della lingua italiana, Torino, UTET, 1961 e seguenti) pp.459, 460, 466 e
470;
[26] Infatti tale voce butirro è presente in Filippo Chiappini, Vocabolario
Romanesco,
Roma, Il Cubo, 1992; in Gennaro Vaccaro, Vocabolario
Romanesco-Trilussiano e italiano-romanesco, Roma, Il Cubo, !995 e nel GDLI.
cfr. DELI (Manlio
Cortelazzo -Paolo Zolli, Dizionario etimologico della
lingua italiana. Nuova ed., col titolo Il nuovo etimologico, a cura di Manlio
Cortelazzo-Michele A.Cortelazzo, Bologna, Zanichelli, 1999, pp 263 e
265
[28] DELI, cit., p.1101 e DEDI,
(Manlio
Cortelazzo e Carla Marcato,
Dizionario etimologico dei dialetti
italiani, Milano, Garzanti, 2000, p.311.
Grammatica,
cit., pp 203-204 e « Studi Linguistici Italiani »,XV, (1989), [29] Da Emilio
Faccioli (a cura di), L’arte della
cucina italiana.Libri di ricette e trattati sulla civiltà della tavola dal
XIV al XIX secolo, Torino,Einaudi,1992,
p.21.
[31] Cfr. DISC (francesco
sabatini-vittorio coletti, Dizionario della Lingua Italiana, Nuova
Edizione, Milano, Rizzoli Larousse, 2003, p. 1969; Vocabolario della lingua italiana, Roma, Ist. Enciclopedia Italiana
fondata da G.Treccani, III, 1991, pp.922-923.
Monnier, 1957, p.176
[33] Cfr.per tutte le varianti fonetiche e
le attestazioni DEI (carlo battisti-giovanni alessi, Dizionario etimologico italiano, Firenze, Barbera,1950-57,p.2962; DELI, p.1207; pietro Fanfani, Vocabolario
italiano della lingua parlata, Firenze, Le Lettere, 1976 (copia
anastatica), p.730; GDLI, pp.613 e 616-617; VEI,
p.614; Vocabolario della lingua italiana,
pp.922-923.
Commenti
Posta un commento